Emanuel: storia di un giovane transgender: «La forza di scegliere»
«Sembravo un maschietto. Mi sentivo diverso. Sentivo che qualcosa in me non andava. Mi sentivo sbagliato. Sono transgender, ma per tanto tempo non l’ho saputo, perché è una realtà di cui si parla poco. Non sapevo chi ero. Quando uno pensa ad un transgender, pensa ad una donna con la barba, a un pregiudizio. La verità è un’altra. Ed è una questione di identità sessuale, non di gusti sessuali. Essere transgender non è essere gay. Un gay o un etero semplicemente hanno gusti diversi: sanno se amano la carne o la verdura. Io invece non sapevo cosa ero. Ora lo so, e per capirlo sono ripartito da zero. Ho fatto un percorso psicologico e di cambiamento fisico e adesso sto veramente bene».
Questa è la storia di Emanuel Crepaz, 24 anni, studente ad Innsbruck, dove sta facendo un master in strategia di impresa. Sta anche lavorando in una start-up. Si è laureato in economia e management a Bolzano, mentre le scuole superiori (Istituto tecnico turistico) le ha fatte al Sacro Cuore di Trento. Adesso si divide tra Austria e Trentino.
È cresciuto a Vigo di Fassa. «Ed essere me stesso in una realtà piccola come quella di una valle dove tutti si conoscono... beh, diciamo che è un po’ difficile».
Emanuel ha una sorella di 21 anni e un fratello di 18. «Quando ho preso la decisione più importante della mia vita, mio fratello mi ha detto: “Vabbé... Vorrà dire che ci faremo ufficialmente un armadio di vestiti in comune”. Tutta la mia famiglia mi ha supportato. E non è stato facile, soprattutto all’inizio. I miei genitori sono molto cattolici, molto religiosi e avevano paura che potessi stare male».
In questa storia c’è un prima e c’è un dopo. «Prima, se mi chiamavano per nome, neanche rispondevo. Prima ero scontroso, sgarbato». Ed Emanuel ci vuole parlare di questo passaggio, perché «è bene raccontarle, certe cose. E magari leggere questa storia può servire a qualcuno».
Dimensione complessa, che non si esaurisce nell’alternativa tra essere uomo o donna.
«Biologicamente mi sento a metà, ma a livello di identità di genere bisogna fare un passo avanti. Bisogna parlare di “persona”. Se prendi due uomini e chiedi perché si sentono uomini, avrai due risposte diverse. Io la prima cosa che dico alla domanda “cosa sei?” non rispondo “uomo”, rispondo “Emanuel”. Bisogna andare oltre e ripartire dal concetto di persona. Così possiamo superare il problema del gender gap, sul diverso trattamento di uomini e donne.
Siamo tutti persone e ripartire da qui potrebbe essere una gran bella storia».
Hai parlato di percorso psicologico e di cambiamento fisico. Ce ne parli?
«Biologicamnete ero femmina, anche se tutti mi scambiavano per un maschio. Nell’agosto 2017 ho iniziato la terapia ormonale. È importante perché, banalmente, cambia la voce, la barba, la distribuzione del grasso. Nell’aprile 2018 ho fatto le "operazioni demolitive". Ho fatto la ricostruzione del petto a Firenze: un intervento di chirurgia plastica con la dottoressa Giulia Lo Russo. Bravissima. Nel 2019 ho fatto il secondo passo: l’istero-annessiectomia, la rimozione di utero e ovaie, al Santa Chiara di Trento, dove mi sono trovato molto bene».
Stai pensando al passo successivo, le operazioni ricostruttive per il cambio del sesso?
«Ci ho pensato, ma al momento sto bene così. I passi che ho fatto sono stati meditati. Prima, parlando del petto, mi sentivo a disagio. E allora mi coprivo con delle sciarpe. Oppure tenevo le braccia incrociate e la schiena piegata, quasi a coprirmi, che non fa neanche tanto bene a livello posturale». Ride.
E adesso?
«In una parola: libertà, fisica e mentale. È come quando uno ha un grosso neo sul braccio e quando lo rimuove smette di portare le maglie con le maniche lunghe anche d’estate al mare».
Quale è stata la parte più difficile di questo percorso?
«Difficile dirlo. Prima c’è lo psicologo, poi l’avvocato, poi le operazioni chirurgiche...»
L’avvocato?
«Sì, per fare interventi chirurgici di questo tipo, su parti sane del corpo, ci vuole una sentenza di un giudice che, dopo aver raccolto tutti gli elementi utili, dà il via libera ai medici per un intervento che è fondamentale per il benessere dell’individuo.».
Come hai comunicato la tua decisione ai tuoi genitori?
«Il mio percorso, anche di presa di coscienza, è stato lungo. Ero al mio primo anno di università. Non sapevo con chi parlare. Sono andato su internet e ho iniziato a fare un po’ di ricerche. Ho capito che non ero solo, in questo stato di malessere. Ho visto però che c’erano soluzioni. Non è stato facile parlarne in famiglia. I miei genitori sono molto religiosi e su determinati temi hanno una certa posizione. Non sapevo come dirglielo e allora ho deciso di scrivere loro una lettera. L’ho scritta al computer. Non so quante pagine...».
E poi?
«Io in quel periodo studiavo a Bolzano e tornavo a casa solo per il fine settimana. Ho lasciato la lettera nell’armadio di mia mamma e sono partito per Bolzano. Poi però l’ho chiamata al telefono e le ho detto: “Guarda nell’armadio. C’è una lettera per te e papà”».
E come ha reagito?
«Era preoccupata. Mi ha detto: “E se poi stai male? E se poi gli interventi chirurgici non sono la soluzione?”. Ma io mi ero informato ed ero determinato. Mi ha chiesto di parlare con un prete, oltre che con uno psicologo».
Il prete cosa cosa ti ha detto?
«È stato un bel confronto. Lui mi diceva che per volermi bene dovevo accettarmi così com’ero, ma per me volermi bene significava fare ciò che avevo deciso: un percorso di rinascita».
Papà che ha detto?
«Ho avuto sostegno da tutta la famiglia».
Pensi che raccontare pubblicamente la tua storia ti creerà dei problemi?
«Io ho “perso” 20 anni della mia vita in una identità diversa da quella che sento mia. Non ho nessuna intenzione di perdere tempo ed energia con persone che non capiscono o non vogliono capire. Il punto è che io oggi sto così bene che divento selettivo: le persone con cui mi relaziono devono darmi qualità, un “valore aggiunto”. Non ho tempo per chi mi toglie energia.
Raccontare la mia storia può avere un senso perché voglio far capire che la “diversità” è una ricchezza e non può essere una scusa per stare un passo indietro, per non voler conoscere, perché siamo tutti persone».
Hai subìto atti di bullismo?
«Non in senso classico, ma ho avuto tanti momenti di disagio. Tendevo ad andare “in difesa”, a rispondere male. Per spiegarti il malessere, ti posso dire che era come se avessi avuto la testa dentro un sacchetto di carta: se hai un sacchetto in testa tu parli, ma la persona che hai davanti ti capisce fino ad un certo punto. Oppure, per usare un’immagine teatrale, è come recitare su un palcoscenico ma con il sipario chiuso; poi chiedi al pubblico se lo spettacolo è piaciuto, ma il pubblico non può capire. E chiaramente nasce della frustrazione».
Tu non hai scelto le operazioni ricostruttive per il cambio del sesso. Perché no?
«Io per il momento sto bene così».
E nei rapporti con l’altro sesso questo diventa un problema?
«La chiave di tutto è nella comunicazione.
Tutto dipende da ciò che hai da dire e come lo dici. Una cosa bella raccontata male, produce negatività. Deve esserci rispetto e, detta francamente, io posso pensare di aprirmi solo con le persone che portano tale rispetto.Voglio relazioni di qualità».
E il pregiudizio com’è?
«Spesso c’è chi ti dice che si tratta di una scelta. Ti dicono: “Hai scelto tu di essere così”. Ma non si sceglie come sentirsi. Ad esempio, se ti senti deluso o felice, non dipende da te. È semplicemente lo stato in cui ti trovi. Ciò che puoi scegliere è cosa fare a fronte di quella determinata sensazione, quale passo fare. Nel mio caso ho scelto, come ti dicevo, di volermi abbastanza bene da scegliere di intraprendere un bel percorso. E possiamo proprio dire che, anziché stare dietro la tenda del palco, ho scelto la vita».