Troppe assenze per malattia Invalida licenziata fa causa
Non bastava l'invalidità, ci si è messo anche il tumore. E con quello, assieme agli ospedali e la paura, sono arrivati i problemi sul lavoro.
L'hanno messa alla porta: aveva fatto troppa malattia. E lei deve aver deciso che forse una battaglia di principio valeva la pena farla, per se stessa e per chi nelle sue condizioni arriverà in futuro. Ha fatto causa per licenziamento nullo o illegittimo in quanto discriminatorio. Chiede di tornare al suo posto di lavoro, dietro la cassa di un supermercato. Se ne abbia o meno diritto lo deciderà il giudice Michele Cuccaro, ma certamente il caso rischia di fare giurisprudenza. Perché afferma un principio: trattare tutti nello stesso modo significa discriminare i soggetti deboli.
La storia vede al centro una donna che soffre di insufficienza renale. Una cosa seria, quando nel 2003 è stata assunta da un grande supermercato, già aveva una invalidità civile che provocava una riduzione permanente della capacità lavorativa di un terzo, e un'invalidità del 60%. Per questo era stata assunta in qualità di lavoratrice appartenente alla quota di riserva dei lavoratori per categorie protette. Nel 2018 i suoi problemi si sono aggravati.
Due i fronti sanitari con cui ha dovuto combattere. Prima di tutto la sua insufficienza renale, che si è fortemente aggravata, tanto da obbligarla ad un ricovero ospedaliero: tra intervento chirurgico e convalescenza è rimasta a casa qualche settimana, a inizio 2019. Un peggioramento delle sue condizioni che purtroppo ha lasciato il segno: la riduzione della sua capacità lavorativa è aumentata a due terzi, l'invalidità al 91%. Insomma, non uno scherzo. Già così era difficile, e lei era stata a casa oltre un mese per malattia.
Poi è arrivata la tegola: tumore al seno. Ha iniziato la trafila: due interventi chirurgici, radioterapia. Una convalescenza lunga. In tutto, da gennaio a dicembre 2019, è rimasta in malattia (ovviamente tutte certificate) 185 giorni.
I contratti di lavoro regolano con precisione limiti e disciplina della malattia. Il lavoratore ha diritto di stare a casa se malato, ma entro un limite. Si chiama limite di comporto. Il concetto è chiaro: il datore di lavoro si prende il rischio della malattia dei dipendenti entro un tot. Oltre, può licenziare. Ecco, il limite di comporto, per il contratto del commercio, è 180 giorni in un anno solare. Alla signora sono stati contestati 185 giorni, ed è stata lasciata a casa. Da qui la causa di lavoro.
Ad assisterla è l'avvocato Alessio Giovanazzi, che davanti al giudice sosterrà una tesi precisa: applicare le stesse regole a tutti rischia di essere discriminatorio nei confronti dei soggetti deboli.
A evidenziare questo principio è stata prima di tutto la normativa in sede europea. In particolare una direttiva (la 2000/78/CE) stabilisce il concetto di discriminazione indiretta, quando una disposizione apparentemente neutra può mettere in svantaggio un soggetto. In questo caso, il limite del comporto (180 giorni in un anno di malattia) è un criterio che penalizza le persone disabili per definizione, perché sono soggetti che rischiano più di altri di ammalarsi, per patologie legate alla loro condizione. Per questo, secondo la difesa della donna, i giorni di malattia legati alla sua patologia, l'insufficienza renale, non dovrebbero essere contati ai fini del periodo di comporto. E tolti quelli, la signora è ampiamente nei limiti. Non solo. Ci sono pronunce secondo cui anche le malattie oncologiche dovrebbero avere una disciplina particolare. Il perché è evidente: non è difficile fare tanti giorni di malattia, in caso ci si ammali di tumore. Se alla signora si tolgono anche i giorni di malattia per le terapie oncologiche, il problema del periodo di comporto, semplicemente, svanisce. Questa la tesi. Ora sarà il giudice a decidere.