Il miglior giovane chimico è un roveretano in fuga: “All’estero la competizione è alle stelle, ti fa crescere”
Dal diploma in Trentino alla laurea e al dottorato a Chicago, nel team insignito del Nobel nel 2016. Oggi Cristian Pezzato dirige il “suo” laboratorio all’Università di Losanna
ROVERETO. È il ricercatore roveretano Cristian Pezzato il vincitore della prestigiosa medaglia Giacomo Ciamician assegnata annualmente dalla Divisione di Chimica Organica della Società Chimica Italiana. Riservato a studiosi under 40 che si sono distinti per ricerche di notevole originalità e interesse, il premio è un nuovo riconoscimento nella carriera di Pezzato che in passato ha fatto parte, a Chicago, della squadra di sir J. Fraser Stoddart, uno dei tre professori che, assieme ai colleghi Jean Pierre Sauvage e Ben Feringa, nel 2016 ha vinto il Nobel per la chimica grazie alle scoperte sulle macchine molecolari. Pezzato da allora, dopo tre anni negli Stati Uniti, ha intrapreso la sua strada e nel 2019 è approdato al Politecnico federale di Losanna dove gestisce una piccola equipe di ricerca.
«Sono molto contento - afferma - perché la medaglia è intitolata a Giacomo Ciamician che viene considerato dalla comunità scientifica il padre fondatore della foto-chimica, che è poi l'argomento sui cui ho scelto di lavorare».
Cervello in fuga, ti si addice la definizione?
«Direi di sì. È vero che ho scelto di fare il post dottorato a Chicago, e sono stato là tre anni, dopo però sono andato in Svizzera perché per tornare in Italia esistono dei percorsi molto più complessi rispetto alla Svizzera, per tante ragioni. La Svizzera offre molte più opportunità di finanziamento e qui ho vinto un grant per un arco temporale di quattro anni nei quali posso portare avanti le mie ricerche indipendentemente. In Italia, invece, quando si fa una proposta non chiedono progetti, non vengono valutate le idee, ma il curriculum e il percorso sulla didattica e l'insegnamento che spesso, se uno fa ricerca, è poco e quindi si finisce per essere penalizzati. Trovo la Svizzera più premiante per un ricercatore perché propone bandi aperti ai quali si può presentare la propria idea e dopo un colloquio viene presa la decisione. C'è talmente tanta didattica in Italia che portare avanti la ricerca è molto più difficile. Sono due sistemi diversi e personalmente preferisco quello svizzero».
L'invito è a lasciare il Bel Paese se si vogliono raggiungere obiettivi ambiziosi?
«Sicuramente consiglio a tutti di fare un'esperienza fuori dall'Italia, quando torni vedi le cose sotto un'altra ottica. La competizione all'estero è alle stelle, ma proprio per questo quando si torna in Italia si è pronti a reggere la pressione e lo stress che questo ambiente comporta. Non escludo di tornare, mi piacerebbe».
Com'è stato l'impatto con l'ambiente di ricerca statunitense, dopo il dottorato in Italia?
«Per farvi capire quanto è diverso rispetto a qui il rapporto con i docenti, ma direi tutto l'ambiente di ricerca, vi racconto il mio colloquio a Chicago, quando Stoddart mi ha accolto nella sua equipe. Sono arrivato in aeroporto e a prendermi c'era lui in persona, non me l'aspettavo. Il colloquio è durato praticamente tutto il giorno: prima mi ha portato direttamente dall'aeroporto ai laboratori e a conoscere i ricercatori, poi ho fatto il colloquio vero e proprio nel tardo pomeriggio e si trattava di tenere un seminario nel quale presentare il mio dottorato a tutti i ricercatori dell'equipe. Infine, la cena. che in realtà, l'ho capito poi, è una prosecuzione del colloquio perché l'equipe cerca di tracciare un profilo della persona per valutare la compatibilità con il gruppo. È stato un giorno lunghissimo, quella sera ho dormito dieci ore di fila».
Su cosa stai lavorando a Losanna?
«Sto facendo cose completamente diverse dal percorso precedente con Stoddart. Mi occupo di foto-chimica: studiamo l'interazione della luce con composti chimici e nello specifico la foto-acidità, quindi l'acidità indotta dalla luce. Diciamo che capiamo come trasformare un bicchiere di acqua in un bicchiere di aceto, e questo si può fare in maniera reversibile: messi al buio questi composti chimici tornano infatti allo stato precedente spontaneamente. La mia idea è applicare questo processo di foto-acidità a delle batterie, questo permetterebbe di produrre elettricità sfruttando l'alternanza luce-buio invece di subirla come accade oggi visto che i pannelli che abbiamo per la produzione di energia di notte non funzionano. È un obiettivo a lungo termine».
C'è un sogno professionale nel cassetto che stai perseguendo?
«Sicuramente sviluppare la mia equipe. Già ora sono fortunato perché ho la mia indipendenza e un piccolo team di ricerca, ma chiaramente il finanziamento che ho vinto ora ha un termine ben definito, mi piacerebbe accedere a finanziamenti più importanti per avanzare con il mio progetto di ricerca, poter avere più persone che vi si dedicano».