L’incendio della Sloi, la notte del 1978 in cui potevamo morire tutti. Da allora si aspetta la bonifica (che nessuno sa come fare)
Luigi Sardi racconta cosa successe: a fuoco i fusti del sodio, che producevano nubi di soda caustica, ma l’intervento dei vigili del fuoco scongiurò la fuga di piombo teatraetile
Era il 14 luglio 1978. Verso le 20 via Belenzani e piazza Duomo erano state investite da una violenta raffica di vento, un groppo freddo che sembrava piombare sulla città da quella nuvola color piombo, solcata da fasci di fulmini mentre la tempesta flagellava soprattutto il rione di Cristo Re. In via Maccani alla Sloi, la pioggia era ruscellata attraverso la sconnessa copertura di Eternit in un capannone dove erano accatastati 300 fusti di sodio; uno era incrinato, l'acqua a contato con il sodio, un metallo tenero come la cera, aveva scatenato una violenta reazione sprigionando idrossido di sodio.
Le fiamme erano esplose, gli operai avevano cercato di circoscrivere l'incendio ma altri barili erano scoppiati schizzando lingue di fuoco a distanza di metri. Ancora dai titoli dei giornali: «Si è prospettato lo sgombero di alcuni rioni di fronte alla nube tossica sprigionata dalla Sloi». Ricordava Valentino Graiff, pompiere della prima partenza: «Era impressionante. Noi andavamo verso la Sloi e la gente scappava verso la città. Bruciava tutto il deposito dei fusti, non c'era niente da fare».
Ma ecco altri titoli: «La paura che le fiamme facessero scoppiare i contenitori del piombo tetraetile», l'antidetonante della benzina di quegli anni, 30 volte più micidiale dell'iprite, il gas impiegato nella Grande Guerra. La nube di fumo era diventata gigantesca, sovrastava Campo Trentino, aveva investito le case di via Soprasasso, di Roncafort, Gardolo spostandosi, portata dal vento, ora verso il rione di Cristo Re ora verso Martignano; una nube di soda caustica spinta in alto da un rogo che aveva raggiunto i 1200 gradi e negli uffici della Questura erano state messe in preallarme le "volanti” in attesa di un ordine angoscioso: lo sgombero in piena notte di molti rioni cittadini. In una nebbia calda, biancastra che penetrava attraverso le finestre e negli abitacoli delle auto sempre più fitta bruciando la gola, centinaia di persone coprendosi la bocca con fazzoletti bagnati abbandonavano la città.
Ricordava l'ingegnere Nicola Salvati, all'epoca vice comandante del vigili del fuoco: «Quando arrivai di fronte all'incendio mi dissi che, per fortuna portavo la fede con incisa la data del mio matrimonio. Almeno con quella mi avrebbero potuto identificare» perché se le fiamme avessero raggiunto i depositi di piombo tetraetile l'incendio sarebbe stato un'enorme esplosione e i gas avrebbero annientato quanti li avrebbero respirati. In quelle ore convulse i medici in servizio al pronto soccorso del Santa Chiara avevano valutato il pericolo di quella nube di soda caustica; si era capito che la nube portava solo - si fa per dire - irritazione alle mucose, fastidio agli occhi, lacrimazione, senso di soffocamento. Quella valutazione presa in fetta, verrebbe voglia di dire alla buona, riferita per telefono ad un funzionario della Questura aveva evitato lo sgombero, forse impossibile, della città.
«Meglio non pensarci» aveva detto il dottor Silvio Belli, all'epoca sovrintendente sanitario degli ospedali. «È andata» si limitò a dire il deputato Bruno Kessler che, con un gruppo di cronisti, non si era mosso dalla Sloi. Verso le 22 Salvati prende la decisione vincente. Requisisce due autobotti che trasportano 540 quintali di cemento in polvere, le fa pilotare il più vicino possibile al rogo e man mano che il cemento viene lanciato fra le fiamme queste si attenuano, si allontana il pericolo del crollo del capannone, soprattutto quello dell'esplosione dei fusti del mortale piombo tetraetile. Nella notte l'allarme rientra ma resta la paura e migliaia di concittadini restano incollati alle radio transistor che continuano a trasmettere notizie dal fronte dell' incendio.
Foto di Nereo Pederzolli, 1978
«Abbiamo passato un momento di pericolo per la pubblica incolumità» dichiarerà l'ingegnere capo della Provincia Vittorio Armani e il sindaco Giorgio Tononi ordinerà l'immediata chiusura della Sloi. Dal giornale l'Adige del 21 maggio 1966: «Nell'area della Sloi l'inquinamento è dato dal piombo in una quantità stimata fra le 170 e le 180 tonnellate su un terreno pari a 35 mila metri cubi».
Quella che venne chiamata «macchia nera» e definita «bomba ecologica innescata» da Lorenzo Dellai quando era sindaco di Trento è ancora lì, sprofondata nel terreno. E nessuno sa come disinnescarla.