«I talebani volevano uccidermi, sono fuggito ed entrato a piedi in Italia. In Trentino mi sento rispettato»
Fahad Alì è pakistano, 28 anni, è approdato a Nomi dopo una lunga fuga: perseguitato perché in Afghanistan lavorava in una Ong che si occupava di distribuire vestiti, cibo, medicinali alle persone in difficoltà. «La parte più dura del viaggio è stata quella tra Bosnia, Serbia e Croazia: la polizia di frontiera di questi tre Stati è particolarmente dura, spietata»
ACCUSA "In cinque anni il Trentino ha dimezzato il numero di rifugiati"
NAUFRAGHI La guardia costiera: a Pasquetta soccorsi 1.200 migranti
IL CASO Richiedenti asilo senza accoglienza e alloggio in Trentino
ROVERETO. Fahad Alì ha 28 anni, compiuti lo scorso 23 marzo. Abita a Nomi, in un appartamento assieme ad altri richiedenti asilo.
È pakistano. Segue, con impegno, i corsi di italiano per stranieri al centro Eda del "Don Milani" di Rovereto. Il suo temperamento, mite e socievole, gli ha permesso di stringere relazioni positive all'interno e all'esterno dell'istituto. Dopo le lezioni lavora come aiuto cuoco in un ristorante etnico. Per venire qui Fahad Alì ha visto, e vissuto, l'inferno.
La sua strada verso un futuro migliore non è stata né facile, né breve.Nato a Peshawar, in Pakistan, dopo gli studi in comunicazione, Fahad ha lavorato in una Ong che si occupava di distribuire vestiti, cibo, medicinali alle persone che si trovavano in difficoltà.
«Sono stato minacciato di morte - ci racconta - dai Telebani per il semplice motivo che l'Ong di cui facevo parte distribuiva gratuitamente i vaccini che, secondo i Talebani, erano dannosi.
Per i Talebani, chi distribuisce farmaci e vaccini va guardato con sospetto. La regione del Pakistan nella quale sono nato confina con l'Afghanistan; la frontiera è un vero e proprio colabrodo: entrano ed escono Talebani, armi, droga. E i Talebani godono della protezione, tacita, delle forze governative e di quelle di polizia. Ricordo che i Talebani, a Peshawar ma anche in zone limitrofe, hanno ucciso, in nome delle loro arcaiche, estremiste e ottuse convinzioni, alcuni appartenenti delle organizzazioni umanitarie. Mi sentivo in pericolo, non riuscivo più a lavorare serenamente: allora ho deciso, con il cuore a pezzi, di andarmene».
Così, il 17 novembre 2019, Fahad Alì parte. «Dal Pakistan sono passato in Iran, poi mi sono fermato in Turchia, quindi sono andato in Grecia e successivamente in Macedonia. Nelle varie località, a volte stavo mesi, altre settimane o giorni: dovevo arrangiarmi a sopravvivere, dovevo trovare da mangiare e un riparo per la notte. Ho quasi sempre dormito all'addiaccio sulle panchine, per terra o in ricoveri di fortuna. Ormai avevo dimenticato come fosse fatto un letto con lenzuola e coperte. Ho sofferto il caldo e il gelo e non ho scordato le dolorose piaghe sulle piante dei miei piedi. Mangiavo ogni due giorni, bevevo acqua una volta al giorno».
Con gli occhi lucidi, Fahad ci racconta di una sera, in Kosovo, attorno ad un improvvisato fuoco: Fahad, dopo una frugale cena a base di riso, non ha più rivisto alcuni profughi presenti, morti, nei giorni successivi, di stenti e di indifferenza.
«Sono fortunato, sono un credente, la speranza non mi ha mai abbandonato, sentivo che Dio mi avrebbe aiutato. Rammento ancora quando sono giunto in Kosovo: il richiamo del muezzin, dopo giorni e notti di silenzio, mi ha riportato alla vita. La parte più dura del viaggio è stata quella tra Bosnia, Serbia e Croazia: la polizia di frontiera di questi tre Stati è particolarmente dura, spietata. Sono stato più volte respinto e picchiato. Mi muovevo di notte per non essere individuato e arrestato per immigrazione clandestina. Ai luoghi abitati preferivo il bosco, più sicuro. Il 17 giugno 2021 sono arrivato a Trieste dopo aver attraversato un lembo del territorio sloveno. In Italia sono arrivato molto stanco, quasi allo stremo delle forze. A Trieste ho preso un treno la cui destinazione era Torino, una città a me sconosciuta come il resto d'Italia. A Torino mi sono fermato qualche settimana. Ad un certo momento, ho deciso di ripartire e prima di arrivare a Trento, ho fatto una piccola sosta a Ferrara. Non ho mai avuto una meta prestabilita. Se la stagione lo permetteva stavo all'aperto, nei giardini pubblici, se era freddo cercavo riparo nell'atrio delle stazioni ferroviarie. Se ricevevo qualche euro, mi potevo permettere una bevanda calda. Di notte dormivo sotto i ponti. A Trento ho incontrato un pakistano che mi ha offerto un pranzo in un ristorante: mi è sembrato di sognare dopo mesi di rinunce. Lui mi ha fatto conoscere il "Punto d'incontro", e questa realtà solidale mi ha rilasciato una tessera per poter accedere, gratuitamente, alla mensa: finalmente un pasto normale. Mi trovo bene in Italia e in modo particolare mi sento rispettato in Trentino - sottolinea quasi timidamente - una terra ospitale che ha strutture accoglienti. La polizia, qui in provincia di Trento, con gentilezza e disponibilità, mi ha spiegato come devo regolarizzare i documenti. Chi, come me, non ha casa e lavoro, non viene abbandonato».
Qual è il sogno di Fahad? «Vorrei rimanere in Italia, mi piacerebbe che mi raggiungessero i miei genitori. Lasciare il Pakistan non è stato facile, ma, purtroppo, la vita, talvolta, ci obbliga a fare certe scelte».