Panarotta, l'ex dirigente: «Sicurezza, tante lacune»
Marco Margoni era un grande amico di Bruno Paoli, il poliziotto morto sulla Panarotta. «Abbiamo imparato a sciare insieme, sulla Panarotta abbiamo passato tanti giorni felici, e anche nottate di lavoro». E adesso che Margoni ha lasciato la «sua» montagna per andare a lavorare sugli impianti della Marmolada, la tristezza avanza.
Margoni, in giro dicono che è stato lei, con le sue denunce, a far scattare il sequestro della località.
«Questa sono chiacchiere da bar senza nessun fondamento. È vero però che l’anno scorso avevo segnalato più volte che le cose sul versante della sicurezza non andavano bene».
Dicono che lei è andato dall’assessore Michele Dallapiccola in persona.
«Ben prima della morte di Bruno Paoli avevo scritto un messaggio all’assessore. Mi ha risposto “mi lasci il suo numero che la richiamo”. Ma non sono mai riuscito a parlare con lui, non mi ha ricevuto. Alla fine ho parlato solo con uno dei suoi segretari, ai primi di gennaio 2018».
E cosa ha detto?
«Ho detto quello che la Forestale e altri enti di controllo avevano già detto: la Panarotta presentava secondo me delle lacune sul versante della sicurezza, lacune che erano già emerse negli anni precedenti, e che erano state tamponate, ma non affrontate con la managerialità necessaria».
Ma lei era direttore tecnico degli impianti la scorsa stagione. Non poteva fare qualcosa?
«Io avevo iniziato il mio lavoro in Panarotta come capo impiantista nel novembre 2016, su richiesta del presidente Oss e dell’attuale direttore Renzo Gaiga. Ricordo che quell’anno c’erano grosse difficoltà di innevamento, fu un inizio difficile e a inizio gennaio, dopo aver lamentato grosse difficoltà tecniche e di sicurezza, feci la prima segnalazione all’ente preposto».
Al Servizio Impianti a Fune o al Servizio Turismo della Provincia?
«All’ente preposto e competente. E naturalmente al Direttore della stazione in persona. Ho iniziato personalmente a montare le reti di sicurezza sull’unica pista che avevamo aperta, la Malga. Nonostante il direttore Gaiga mi avesse invitato a occuparmi degli impianti come previsto dal mio ruolo, e non della gestione delle piste».
E poi, cosa è successo?
«È successo che una domenica, al campo scuola, un bambino è volato fuori pista e si è conficcato un fittone di albero nello stomaco. Quel giorno sono corso con la mia auto privata a recuperare del nastro e del filo di ferro per chiudere la pista con delle protezioni, li abbiamo montati io e un collega. Avevo preso un grosso spavento dall’accaduto, e mi sono organizzato per montare da solo le reti. Faccio presente che neanche gli attrezzi a disposizione del personale erano funzionanti, dovetti andare a casa mia e portarmi su un trapano e un compressore di mia proprietà».
Non c’erano neanche gli attrezzi?
«Sto dicendo che la Panarotta è in mano a una società che a novembre 2016 ha ricevuto dalla Provincia 600 mila euro per rilanciare la località, ma non mi sembrò che ci fosse una grande ricaduta nella qualità del lavoro che svolgevo».
E i 600 mila euro a cosa sono serviti?
«Quello chiedetelo al presidente Oss. A Pergine se lo chiedono in tanti. Io sono di Pergine, la Panarotta è sempre stata la nostra montagna, dei perginesi, ma se vai in Panarotta di perginesi non ne incontri più. Li incontri a Folgaria, in Paganella, in Val di Fiemme. Qualcuno dovrebbe chiedersi il perché. Un tempo c’erano mille stagionali di perginesi, adesso non lo so, ma credo intorno ai 300. Sarebbe bello che lo dicessero».
Il Direttore Gaiga, due settimane fa, ha detto che «non si possono mettere le reti dappertutto sennò è la fine dello sci». Cosa ne pensa?
«Allora mi chiedo perché la Provincia metta i guard-rail su tutte le curve sulle strade. Con questa logica, facciamo a meno di mettere guard-rail. Qui credo che nessuno voglia le reti «dappertutto», ma almeno nei punti che in passato si sono dimostrati pericolosi».
Dove è morto Paoli è un punto pericoloso? È una stradina di collegamento...
«Io so che in quel tratto di incidenti ce ne sono stati. Uno, molto grave, sette anni fa e poi degli altri meno gravi. Io e Bruno da anni dicevamo che lì andava raddrizzato, andava fatto un impianto di innevamento più serio e la pista andava resa più facile. Niente».
Ma lì l’innevamento artificiale c’è.
«L’innevamento c’è nel tratto prima. In quella zona dove è accaduto l’incidente no, la settimana prima c’era un operaio che buttava la neve col badile sopra il ghiaccio e i sassi. Sotto il velo di neve della nevicata, grattando con uno scarpone, c’è ghiaccio vivo. Mi hanno detto i poliziotti che quando sono tornati lì a fare gli accertamenti, hanno incontrato scialpinisti che passavano senza problemi, e gente a piedi. In una pista sequestrata. Hanno messo un cartello e una retina di due metri bucata e aggirabile da chiunque, è una cosa incredibile».
Negli uffici dell’assessorato, da Dallapiccola, che cosa è andato a dire?
«Ho detto che secondo me la stazione della Panarotta è gestita in un modo diciamo “familiare”, ma che al giorno d’oggi non è più possibile lavorare in queste condizioni. Gli standard tecnici e di sicurezza richiesti sono inderogabili. Guardate cosa è successo a inizio stagione: nevicava e le piste restavano chiuse, non c’erano gli uomini per spalare i parcheggi, per battere le piste. Con il Servizio Impianti a Fune invece avevo parlato un anno prima. Perché era venuta da me la Forestale e mi aveva detto “Margoni, le reti di protezione è meglio se le monti subito. Non domani, adesso”. Ed io che ero il capo delle seggiovie, mi sono preso la briga di fare anche quello. E come risposta fui aggredito da un dipendente, che avevo redarguito perché con il gatto delle nevi mi aveva tirato giù trecento metri di protezioni».
E la società cosa le disse?
«Niente. Zero. E infatti a fine stagione me ne sono andato, non c’erano le condizioni per lavorare. Quest’anno mi pare di aver visto che le reti le hanno montate, dopo la tragedia. Ma le ha messe su lo Sci Club Panarotta».
Che futuro vede, per la Panarotta?
«Non lo so. Ma credo che se non viene azzerata la società e non si parte con una visione diversa, c’è poco da fare. Spero solo che torni a essere la montagna dei perginesi, come era per me e per Bruno. E spero che venga fatta giustizia per lui e per la sua famiglia, i suoi meravigliosi bambini».