Addio contratti precari e articolo 18
Alla vigilia del primo anniversario di governo, Matteo Renzi porta in dote il Jobs act. Con l'approvazione in consiglio dei ministri dei decreti attuativi, il premier definisce «una giornata storica, attesa da un'intera generazione», il passaggio di «200mila cococo e cocopro a contratti a tempo indeterminato». La «rottamazione» dell'articolo 18 e dei contratti precari è una svolta per il presidente del consiglio che ignora l'ira della Cgil e della minoranza Pd. Ed annuncia, con il ddl sulla concorrenza, la sua prossima sfida: una «sforbiciata a rendite di posizione» ed una sfida alle lobby quando le misure arriveranno in Parlamento.
Ignorando il parere non vincolante delle Camere, il consiglio dei ministri - in una lunga riunione di oltre quattro ore - tira dritto sull'architrave originario della riforma del lavoro: via l'articolo 18 anche «per i licenziamenti collettivi», conferma Renzi, ed avvio dei contratti a tutele crescenti e ai nuovi ammortizzatori sociali, «una rete - è l'immagine del premier - che noi abbiamo ricucito per non far cadere nel buco chi cade dal trapezio». Questo, rivendica il premier, «è un giorno atteso da un'intera generazione che ha visto la politica fare la guerra ai precari ma non al precariato». Dal 2016, come chiarisce il ministro Giuliano Poletti, saranno vietati i contratti a progetto con l'obiettivo di favorire le assunzioni a tempo indeterminato.
Anche sull'aspetto più contestato del jobs act, l'eliminazione dell'articolo 18, Renzi gioca all'attacco: altro che eliminazione di diritti, «parole come mutuo, ferie, buonuscita entrano nel vocabolario di una generazione fino ad ora esclusa». E la possibilità di licenziamenti collettivi per il capo del governo si traduce in «assunzioni collettive e non in licenziamenti collettivi». Perché, da oggi, «gli imprenditori non hanno più alibi» per non assumere. «Ora o mai più», è la convinzione del premier. Che non convince affatto, anzi rincara, la rabbia della Cgil per la quale «il jobs act è il mantenimento delle differenze e non la lotta alla precarietà». E della minoranza Pd con il presidente della commissione Lavoro Cesare Damiano che critica il governo che ha ignorato la contrarietà del Parlamento ai licenziamenti collettivi. Critiche note, come pure l'apprezzamento di Confindustria che vede il decreto sul contratto a tutele crescenti addirittura «migliorato sotto alcuni aspetti tecnici».
Di parere opposto la minoranza Pd, con l'ex viceministro Stefano Fassina che parla di ritorno agli anni Cinquanta e di pura «propaganda renziana sugli effetti per i lavoratori».
Durissima anche la Cgil, che insiste nell'additare il Jobs Act come un passaggio regressivo che peggiorerà le condizioni per tutti i lavoratori, precari o stabili che siano.
Rinviati tra due settimane i decreti fiscali, per la presenza del ministro Padoan all'eurogruppo sulla Grecia, il governo si è concentrato su un nuovo capitolo: le liberalizzazioni. La dialettica tra ministri e alleati ha fatto uscire dal ddl concorrenza la vendita dei farmaci di fascia C fuori dalle farmacie, misura osteggiata dal ministro della salute Beatrice Lorenzin ma promossa dalle associazioni di cittadini come il Codacons. Rinviata anche la riforma dei porti, che vedeva contrario il ministro, sempre di Ncd, Maurizio Lupi. Ma nel disegno di legge che ora dovrà passare «le montagne russe del Parlamento» e sfidare le lobby, entrano gli sconti per Rc auto, maggior trasparenza nei contratti di pay tv e telefonia e l'addio dal 2018 del mercato a maggior tutela per luce e gas.
Puntano ad andare incontro ai cittadini anche alcuni interventi sulle professioni, come lo stop al ricorso ai notai per le transazioni sugli immobili non ad uso abitativo sotto i 100mila euro. Non si sa se passerà le forche caudine della nutrita pattuglia dei parlamentari avvocati anche la possibilità di avere soci di capitale all'interno di società ma il governo vuole andare fino in fondo. Anche perchè, ricorda il ministro dello Sviluppo, le liberalizzazioni «potrebbero portare ad un aumento del pil fino a 2,6 punti in 5 anni».
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