Il Pd si spacca, via Bersani ma Emiliano resta e sfida Renzi
La scissione è compiuta. Si consuma senza guardarsi in faccia la rottura dentro il Pd: i bersaniani non partecipano alla direzione e annunciano con Roberto Speranza di essere al lavoro «per un nuovo soggetto di centrosinistra», Matteo Renzi vola in California, convinto che «peggio delle scissioni ci sono i ricatti».
Chi, invece, dopo varie titubanze, decide di restare nel Partito democratico e di sfidare al congresso il leader dimissionario è Michele Emiliano che prende un'altra strada rispetto alla minoranza «perché il Pd è casa mia e nessuno può cacciarmi». Una casa che il fondatore Romano Prodi guarda ormai da lontano assistendo a quello che definisce «un suicidio politico».
Il Pd cambierà volto anche se i numeri degli addii saranno inferiori a quelli che sembravano domenica scorsa. I bersaniani già domani formeranno gruppi autonomi sia alla Camera sia al Senato non capendo la scelta del presidente della Regione Puglia di «candidarsi nel Pdr», il partito di Renzi.
La decisione tormentata di Emiliano è maturata tra lunedì notte e ieri dopo una serie no-stop di telefonate frenetiche e di riunioni. E in direzione arriva senza più credere che gli ultimi tentativi di mediazione vadano in porto. Addolorato per la rottura con Roberto Speranza ed Enrico Rossi, «persone perbene, di grande spessore umano che sono state offese e bastonate dal cocciuto rifiuto ad ogni mediazione».
Perché, rimanda la palla nel campo avverso, «Renzi è il più soddisfatto per ogni possibile scissione». Ma siccome «chi lotta può perdere ma chi non lotta ha già perso», il governatore pugliese decide di «dare battaglia come il Che» al fortino renziano.
In campo, anche se non ha ancora tratto il dado, è il Guardasigilli Andrea Orlando che lancia il suo blog Stato presente. E chiarisce che la sua candidatura non dipende dalle scelte di altri sfidanti, come a dire che non sarà la discesa in campo di Emiliano a bloccare la sua corsa. «Non mi candido - chiarisce il ministro della Giustizia - a guidare l'opposizione del Pd se mi candido è per guidare il partito». Una sfida che, anche senza la sinistra interna, si annuncia senza sconti e che Matteo Renzi affronterà con l'obiettivo di riaffezionare militanti e iscritti dopo lo choc della rottura.
«Gli addii addolorano ma non possiamo bloccare oltre la discussione nel Pd e nel paese», sostiene il leader dimissionario che trascorrerà qualche giorno negli States per«imparare da chi è più bravo come creare lavoro e crescita nel mondo che cambia». Prima di buttarsi nella battaglia che, secondo i suoi piani, il 7 maggio lo legittimerà di nuovo come segretario.
Ieri la direzione ha eletto i membri della commissione Statuto, composta in rappresentanza di tutte le correnti e che definirà nei prossimi giorni le regole. Per bloccare la scissione a nulla sono serviti gli appelli accorati dei padri nobili del Pd, né di Veltroni né di Fassino in assemblea, né di Enrico Letta e di Romano Prodi che ha confessato la sua angoscia e il fatto di essersi attivato con decine di telefonate per scongiurare il peggio.
Nella serata di ieri, partecipando a DiMartedì su La7, ha parlato pure Pier Luigi Bersani: «Cosa mi hanno detto in famiglia sull'addio al Pd? Era ora, quanto ci hai messo. Non parteciperò al congresso». E ha aggiunto: «Dal primo giorno ho capito che con Renzi non mi sarei mai preso. Questo è certamente un passaggio non facile, ma anche quando hai dei dubbi, quando non sai cosa fare fai quel che devi». Un pensiero sul governo: «Sosterremo Gentiloni, deve arrivare fino al 2018».