Trump caccia i procuratori dell'era Obama, è bufera
Donald Trump caccia 46 procuratori dell'era Obama e apre un nuovo fronte di scontro sulla giustizia: dopo le polemiche sul ministro Jeff Sessions, a rivoltarsi ora è buona parte dell'apparato legale americano sotto la guida del procuratore di Manhattan, Preet Bharara. Lo «sceriffo di Wall Street», così come è conosciuto, ha sfidato direttamente il presidente: «Non mi dimetto, mi licenzi». Un'affermazione che riporta alla ribalta una delle frasi più care a Trump, quel «You're fired» che lo ha reso celebre quando conduceva «The Apprentice». Ed è proprio a un licenziamento sotto i riflettori che Bharara punta per mettere in difficoltà il presidente. Volto della battaglia contro Wall Street, Bharara è considerato un paladino dei consumatori, ma è anche una delle figure più rispettate a livello nazionale. Il suo ufficio si è occupato di alcune delle cause più importanti, dal terrorismo ai diritti civili. Per Bharara, tra l'altro, è stato un fulmine a ciel sereno: in novembre, poco dopo il voto, aveva incontrato il tycoon alla Trump Tower e il presidente gli aveva chiesto di restare al suo posto. Una richiesta accettata al termine di quello che Bharara aveva definito un «colloquio positivo». Cacciandolo Trump si è esposto alle critiche: il rischio è di essere accostato a Wall Street e, soprattutto, di essere accusato di politicizzare la giustizia. Secondo indiscrezioni, in corsa per sostituire Bharara ci sarebbe Marc Mukasey, figlio di Michael Mukasey, ex dell'amministrazione Bush. Mike Mukasey è attualmente nello studio legale Greenberg Traurig, dove lavora anche l'ex sindaco di New York e alleato di Trump Rudolph Giuliani.
La richiesta di dimissioni immediate a 46 procuratori è arrivata a sorpresa, sebbene il dipartimento di Giustizia l'abbia definita una pratica consueta durante una transizione. E a restare a bocca aperta sono stati non solo i procuratori che se la sono vista recapitare ma anche i dipendenti interni del dipartimento di Giustizia, che hanno immediatamente criticato le modalità usate. La situazione «non poteva essere gestita in modo peggiore», si sono lamentate alcune fonti, riferendosi alla mancanza di preavviso e al fatto che molti degli interessati ne siano venuti a conoscenza dalla stampa.
Non aiuta il fatto che a chiedere ufficialmente le dimissioni sia stato Sessions, il ministro della Giustizia pienamente coinvolto nel Russiagate per aver parlato in campagna elettorale con l'ambasciatore russo negli Stati Uniti Serghei Kisliak. Dopo un'ondata di critiche, Sessions è stato costretto ad annunciare che si asterrà dalle indagini sul caso. Ma la sua reputazione ne ha subito un colpo, indebolendolo con i dipendenti del Dipartimento e agli occhi dei procuratori ai quali ora chiede di lasciare libera la poltrona.