Se per protestare basta un click

di Matteo Lunelli

L' indignazione, la protesta, la rivolta hanno cambiato sede. Niente più piazze, auditorium affollati e aule dell'università. Niente più bandiere da sventolare e cortei, gazebo agli angoli delle strade e appelli da firmare. La rivoluzione viaggia su Facebook e il pensiero politico è a portata di «Mi Piace». Il leader diventa un amministratore di pagina, non un carismatico oratore capace di incendiare le coscienze. Una notizia di politica, di cronaca, di sport ed ecco nascere, subito, un gruppo. La protesta dietro il monitor, l'indignazione seduti su una sedia, la «lotta armata al bar», per citare una canzone di Vasco Brondi. Il modus operandi dei nuovi rivoluzionari è costante: una notizia, una foto, un video pescato sul sito di qualche quotidiano o su qualche blog, l'indignazione che cresce, la necessità di condividere con il mondo. La mailing list, le catene sulla posta elettronica, sono ormai superate: troppo difficile raggiungere migliaia e migliaia di persone, troppa paura che si tratti di un virus, autorevolezza nulla. Pubblicare il link alla notizia o la foto sulla propria bacheca è riduttivo, e può essere utile solamente per testare la reazione degli amici, valutandone l'interesse.

Ecco quindi che si crea un gruppo su Facebook. Sui manuali di sociologia e psicologia sociale si definisce gruppo l'unione di due o tre o più persone che si trovano in uno stesso posto nello stesso momento. Che interagiscano o meno tra di loro poco importa. E, nell'era di internet, che il luogo sia virtuale o meno è altrettanto poco importante. Dieci click, trenta secondi di tempo ed il gioco, anzi il gruppo, è fatto. Il caso più recente ed eclatante è quello di «Vaticano pagaci tu la manovra finanziaria»: 140 mila adesioni, servizi su Sky e Rai, articoli sui principali quotidiani nazionali. Sulla pagina si legge che i novelli rivoluzionari 2.0 sono Alessandro, Giulia, Agostino, Giuseppe, Francesco, Anna, che vengono da Parma, Milano, Roma, Reggio Emilia ed altre città italiane. La visibilità è globale e i numeri reali: questa pagina non ha 140 mila adesioni «secondo i webmaster», che diventano «76 secondo la questura». Nessuna discussione: ci sono 140 mila nomi, cognomi e foto del profilo. Meglio ancora, in fatto di numeri, fa «I segreti della casta di Montecitorio»: all'anonimo Julian Assange italiano, di cui si sa solamente che «Licenziato dopo 15 anni di precariato a Montecitorio, ha deciso di svelare pian piano tutti i segreti della casta», credono 376.577 persone. Ma l'Italia che si indigna non si ferma certo alla politica. Ci sono i giustizialisti: «Pena di morte per Michele Misseri, zio di Sarah Scazzi», piace infatti a 44.785 persone. Poi c'è spazio per l'Italia degli «Sherlock Holmes» e dei detective: «Sarah Scazzi, tutti Uniti Per Trovarla» ha 31.721 fan, mentre il «Gruppo per trovare Yara Gambirasio» totalizza 81.574 Mi Piace. Ci sono 59.359 persone che chiedono «Verità e giustizia per Stefano Cucchi», mentre quelli che chiedono la stessa cosa per Elisa Claps sono 16.110.

Migliaia e migliaia di persone, quindi, unite da una coscienza politica e sociale, che vogliono schierarsi e sbandierare il proprio pensiero. Ma è Facebook il posto giusto? E perché su Facebook? Il social network più popolare d'Italia, e il web in generale, offrono una possibilità che nessuna associazione di alcun tipo offre: lottare stando seduti. In questo mondo virtuale non c'è la polizia con i manganelli che ti insegue, al massimo si può trovare qualche agente armato di mouse che rintraccia un vostro post «Politically scorrect». Non c'è bisogno di mettere la faccia, di prendere la parola in un'assemblea, di confrontarsi e persuadere, o farsi persuadere. Basta cliccare. Facile, immediato, senza conseguenze di alcun tipo. Secondo il politologo Lasswell, per descrivere un qualsiasi atto di comunicazione è sufficiente rispondere alle seguenti domande: chi, dice cosa, a chi, con quale effetto. Nel caso particolare dei gruppi su Facebook, chi attiva il processo comunicativo ha un'importanza nulla: sfido chiunque a sapere chi ha fondato il gruppo al quale ci si è iscritti, anche perché al 99% non lo si conoscerà personalmente.

Il «cosa» viene detto è, ovviamente, fondamentale. Ma in quanti, pur aderendo ad un gruppo, sanno realmente di cosa si parla? «Far pagare la manovra finanziaria anche al Vaticano»: prima di cliccare su Mi Piace, quanti hanno letto la manovra? E quanti sanno come sono disciplinati i rapporti tra Chiesa e Stato, ovvero conoscono i Patti Lateranensi e il Nuovo Concordato? Per quanto riguarda «a chi» viene rivolta la comunicazione, nel caso di Facebook la risposta è banale: a chiunque. A prescindere da età, genere, status sociale, orientamento politico. Chiunque aderisca è il benvenuto. Per quanto riguarda gli effetti, che sono probabilmente il punto fondamentale della questione, bisogna distinguere. In Spagna, a Puerta del Sol, gli effetti dei gruppi su Facebook (e Twitter) sono stati impressionanti: a prescindere da come la si pensi politicamente non si può non riconoscere l'assoluta straordinarietà di quel movimento, giovane e pulito, intraprendente e attivo. In Italia le lotte nelle piazze virtuali di Facebook hanno ottenuto qualche titolo sui giornali e poco più. Alla politica il web non fa (ancora) paura: è poco conosciuto e poco sfruttato, sia da chi comanda sia da chi contesta. Ma d'altra parte, chi potrebbe temere una persona seduta, che non conosce nemmeno chi protesta insieme a lei?
m.lunelli@ladige.it

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