L'evasione fiscale non può essere assolta
«Ognuno ha la faccia che ha, ma qualche volta si esagera». Ecco, quei furbetti da cinepanettone, con denunce dei redditi da operai e supercar da top manager, parcheggiate davanti a un quattro stelle di Cortina, quei commercianti che avevano smarrito perfino il ricordo di uno scontrino, tutti questi che si sono scagliati contro il «fisco rapace», hanno la faccia che hanno, ma stavolta hanno esagerato, come avrebbe detto un loro collega illustre, e tartassato storico, il cavalier Torquato Pezzella (GUARDA IL VIDEO). Eppure del blitz dei finanzieri a Cortina ha parlato Andrea Giovanardi sull’Adige come di un’esibizione muscolare del fisco, dai forti toni propagandistici, a beneficio dei riflettori. Ma proprio di riflettori abbiamo bisogno per illuminare le zone d’ombra di questo Paese, per illuminare la protervia di chi, come ha detto Mario Monti, mette le mani nelle tasche dei propri concittadini.
E se lo scopo dell’operazione di polizia tributaria, più che di recuperare gettito altrimenti sottratto al prelievo fiscale (obiettivo peraltro ampiamente raggiunto, se è vero che, miracolosamente, la sola presenza dei finanzieri per le strade ha fatto lievitare, in un solo giorno, anche del 400% il volume d’affari regolare e registrato!), era quello di far capire che, tra una manovra e l’altra, non si colpiscono «sempre i soliti», i «soliti» ne prendono atto con una certa soddisfazione.
È anche così, e certamente non solo così, che si rafforzano quei meccanismi di riprovazione sociale, che in Italia hanno sempre avuto scarso peso nell’ostacolare l’evasione fiscale. Tanto da far emergere negli anni la figura dell’«evasore resistente», e, prima ancora, dell’evasore «per necessità». Comportamenti sdoganati ai più alti livelli e dallo stesso legislatore.
Non a caso Giovanardi, indicando nell’abbattimento della pressione fiscale la strada maestra per abbattere anche l’infedeltà fiscale, ha citato Einaudi («La legge è violata perché è assurdo osservarla»), ma avrebbe potuto limitarsi all’ex premier Silvio Berlusconi - citazione forse meno nobile ma sicuramente di più stretta attualità, ancorché, forse, scomoda - il quale ha più volte dichiarato di sentirsi «moralmente autorizzato» ad evadere, di fronte a certi livelli di prelievo.
Dobbiamo dunque domandarci se l’asprezza del prelievo fiscale possa o meno giustificare l’evasione fiscale, riferendoci, ovviamente, alla sola condanna o riprovazione sociale.
La posizione dell’evasore «resistente», non priva di qualche ragione, certamente non è nuova. Fin dagli albori dell’unità d’Italia, e dunque della storia tributaria nazionale, essa era indicata come causa prima della scarsa «tax compliance», l’adesione spontanea agli adempimenti fiscali, degli italiani. Ed è un’interpretazione che ha accompagnato l’intera storia del Paese, con alterne fortune, come ha ricostruito un recente studio della Banca d’Italia: ci fu la deriva autoritaria del fascismo, quando l’obbligo fiscale valeva quanto l’obbligo di leva e l’evasore altri non era che un disertore: «Gli evasori delle imposte dirette sono i peggiori parassiti della società nazionale», tuonava Mussolini, anticipando l’immagine degli spot di oggi della presidenza del consiglio.
Ci furono gli anni del «fisco democratico» di Vanoni, quelli del «fisco di classe», dello scontro tra «buoni» e «cattivi», gli anni della tolleranza. Quello che non mancò mai fu la malapratica dei condoni, iniziata pochi mesi dopo l’unità, con la cancellazione delle pene pecuniarie relative alla tassa di manomorta, e giunta a noi con i capitali scudati, in attesa di una nuova, avvincente puntata.
Ma contro l’idea dell’evasore «per necessità» troviamo argomenti forti, a cominciare dai numeri. Il «Rapporto finale sull’attività del gruppo di lavoro sull’economia non osservata» dell’Istat ci ricorda che il valore dell’economia «in nero» è stimato in Italia tra i 255 e i 275 miliardi di euro, dunque tra il 16,3% e il 17,5% del Pil. Una decina di manovre finanziarie: un po’ troppo per essere derubricata a evasione «per necessità». Senza contare che esiste, ancora più odioso, un fenomeno di frode contributiva, che da un lato colpisce le casse dello Stato, dall’altro pregiudica il futuro stesso di migliaia di lavoratori.
Di tutto quel valore generato dal sommerso, un terzo viene prodotto dall’agricoltura, poco più del 20% dai servizi (metà del quale ascrivibile ad alberghi e pubblici esercizi), il 12% dall’industria. Il tutto a fronte di una pressione fiscale che nel 2010 è risultata pari al 42,3% del Pil, percentuale che collocava l’Italia al quinto posto in Europa dopo Danimarca, Svezia, Belgio e Francia.
L’evasione «per necessità», inoltre, rivela un altro, importante fattore di iniquità, giacché c’è, in Italia, una gran parte di contribuenti che, di fronte all’asprezza del prelievo evocata come alibi, è, per così dire, completamente disarmata, nuda, trasparente, «compliant» per forza. Sono ancora una volta i numeri a venirci in soccorso: i redditi da lavoro dipendente e i redditi da pensione rappresentavano nel 2009 più dell’80% del reddito complessivo dichiarato!
Il già citato studio dell’Istat ci informa che «tra gli imprenditori il reddito mediano è appena superiore a quello dell’insieme dei contribuenti (circa 15 mila euro), mentre per i professionisti risulta più che doppio (34 mila), scendendo invece a quasi la metà (8.600) per gli agricoltori». Attenzione: i titolari di partita Iva che dichiarano oltre 100 mila euro di reddito sono, tra gli imprenditori, appena l’1,5%.
In conclusione, è fuori questione che per aumentare la «tax compliance» degli italiani si debbano rafforzare i criteri di equità e di efficienza del fisco in generale e dell’Agenzia delle Entrate in particolare, che peraltro ha progressivamente abbandonato le tentazioni al formalismo e e alle liturgie degli accertamenti; è fuori questione che si debbano semplificare le norme e snellire le procedure burocratiche (quelle sì, capaci di spingere alla «resistenza» per necessità); ma è altrettanto fuori questione che il pagamento delle tasse è e deve essere uno dei pilastri del «pactum pacis» tra governo e cittadini, sciogliendo il quale si rinuncia all’idea stessa di comunità.
r. moser@ladige.it