Dall'euro non si esce: è un valore non negoziabile

di Renzo Moser

Nel XIV secolo, una delle più grandi pandemie che colpirono il mondo occidentale, la peste nera, penetrò in Europa dall’Asia Centrale attraverso la penisola italiana, sfruttando le navi dei mercanti genovesi, per poi diffondersi nel Nord del continente.
Oggi, più di sei secoli dopo, da Nord si guarda ancora con sospetto alla penisola, temendo un nuovo, contagio. Molto diverso, certo, ma non per questo meno pericoloso. Un contagio finanziario, del quale abbiamo avuto un pallido assaggio nei mesi e negli anni scorsi, e che viene temuto, nelle capitali europee, proprio come la peste.
Tanto da spingere un ministro delle Finanze solitamente prudente e misurato, come il tedesco Wolfgang Schäuble, a evocare un concreto e rinnovato «rischio Grecia» per il Belpaese.
L’antidoto per fermare la «peste nera» è, prima di tutto, un governo. Non un governo purché sia, ma un governo stabile e credibile, che sia in grado di mantenere in ordine i conti del settore pubblico e, nello stesso tempo, spingere l’Europa verso politiche economiche non solo rigoriste ma anche espansive e pro crescita.
Considerazioni perfino scontate, che però si infrangono contro gli scogli dello stallo in cui sembra precipitata l’Italia dopo il voto di domenica e lunedì scorsi.
E dal quale difficilmente, molto difficilmente si uscirà «contrattando» tema su tema, provvedimento su provvedimento. Pd e Movimento 5 Stelle ci stanno provando, pur tra mille distinguo e un pizzico di teatro. Ma quando si dovrà discutere, per esempio, di stabilità monetaria e di euro? Quando sul piatto verrà posta la permanenza dell’Italia nella moneta unica (uno dei venti punti della Grillonomics per «uscire dal buio») o anche solo una discussione su di essa?
No, non esiste. Ci sono, per usare un’espressione rubata ad altri ambiti di dibattito politico, valori «non negoziabili». L’euro e l’adesione dell’Italia alla moneta unica, è uno di questi. Per tante, fortissime ragioni.
Tralasciando quelle giuridiche (il recesso volontario dalla moneta unica non è previsto, anche se non espressamente vietato, mentre, come è noto, l’articolo 50 del Trattato prevede la possibilità di lasciare tout court l’Unione europea), tralasciando i costi politici, con un Paese umiliato ed emarginato, proviamo a immaginare, per quanto sia difficile, cosa potrebbe succedere, a tutti noi, se si decidesse di uscire dall’euro. È un problema nel quale si sono esercitati gli uffici studi di molte istituzioni finanziarie quando la «Grexit», la exit strategy di Atene, sembrava imminente e inevitabile.
Primo passo: il governo in carica dichiara il default del debito esterno e approva un decreto di emergenza che istituisce una nuova divisa. Nel nostro caso, si presume, la vecchia lira.
A quel punto, il passo successivo è quello di mettere in sicurezza i capitali, e quindi tutti i depositi bancari vengono congelati. In pratica, per un lasso di tempo indeterminato i cittadini risparmiatori non hanno più la disponibilità dei propri patrimoni liquidi. L’operazione viene fatta durante la fine settimana, così da impedire l’assalto agli sportelli. Viene inoltre sancita la fine della libera circolazione dei capitali, peraltro in contrasto con il Trattato dell’Unione. Un golpe monetario bello e buono, giustificato da un obiettivo vitale: scongiurare la fuga di capitali. L’immediato destino della nuova divisa nazionale, nella quale verrebbero convertiti tutti i risparmi dei cittadini, sarebbe infatti quella di una fortissima svalutazione. Per la Grecia si calcolava un tasso di svalutazione intorno al 50%, ma alcuni analisti si erano spinti anche al 70%. Quanto basta per scatenare la gara a spostare i conti correnti in banche dell’area euro.
È peraltro evidente che, qualora vi fosse davvero un referendum sull’euro, i capitali si volatilizzerebbero ben prima di arrivare alle decisioni operative. Ma andiamo avanti.
Oltre ai risparmi, anche i debiti vengono ridenominati in lire. Questo vale per i debiti dello Stato come anche per quelli delle famiglie, a partire dai mutui casa. Cominciamo da questi ultimi.
Una simulazione elaborata dal Corriere della Sera, che prendeva spunto dalla crisi monetaria che investi l’Italia nel 1992, quando fu costretta dalla speculazione ad abbandonare lo Sme (in pochi mesi la lira perse il 25% del suo valore rispetto al marco e i Bot schizzarono al 17%) prevedeva che, in presenza di un mutuo residuo di 100mila euro, la rata di rimborso da 660 euro al mese potesse avvicinarsi al raddoppio, mangiandosi buona parte dello stipendio. Stipendio a sua volta convertito in lire, ovviamente. Le banche, pur nazionalizzate, sarebbero costrette ad agire sui tassi, trovando di fatto dimezzati dalla svalutazione i propri crediti e dovendo comunque finanziarsi in valuta pregiata (se invece il mutuo venisse mantenuto in euro, l’entità del debito a carico della famiglia crescerebbe a dismisura).
In pratica, una famiglia con un mutuo si troverebbe schiacciata tra l’incudine di una svalutazione galoppante, alimentata, in un circolo vizioso, dalla necessità di stampare moneta per compensare la perdita di valore della nuova divisa, e il martello di un costo del denaro in esplosione, certamente a due cifre, con la conseguenza nefasta di una iperinflazione. Cose già viste e vissute, in Italia, ma elevate all’ennesima potenza.  
Per quanto riguarda il debito pubblico, l’ipotesi talora ventilata di dichiararsi insolvibili e non pagare risulta impercorribile, poiché inaridirebbe qualsiasi canale di finanziamento sul mercato. Chi si fiderebbe più di un’Italia insolvente? Il Paese non sarebbe più in grado di finanziare il proprio fabbisogno. Senza contare che un default del debito italiano porterebbe con sé un disastro sistemico e, probabilmente, la fine della stessa Unione europea.
Certo, riappropriarsi della sovranità monetaria e rimettere così le mani su una leva, quella della svalutazione competitiva, che ha sempre alimentato l’industria italiana, qualche vantaggio lo porterebbe. Le imprese più votate all’export troverebbero nuova linfa. Ma a che prezzo? E per quanto tempo? Al prezzo, tanto per fare un esempio, di un pesante crollo del potere d’acquisto dei consumatori, con conseguenze facilmente immaginabili per la domanda interna; o al prezzo di una bolletta energetica, già oggi elevatissima, che schizza verso valori insostenibili.  
Uno scenario catastrofico, da dopoguerra. Risultato del grande imbroglio, l’ennesimo, perpetrato a danno degli italiani, di fronte ai quali chi ci ha portato alla rovina ha cercato di nascondere il suo fallimento evocando fantasmi inesistenti.
Non dimentichiamo le responsabilità nazionali, non cerchiamo il nemico fuori dai nostri confini, a Berlino o a Francoforte: l’Italia, stremata da ripetute crisi inflazionistiche e valutarie, l’Italia che per decenni ha vissuto al di sopra dei propri mezzi, grazie proprio alla morfina dell’inflazione, sottraendo risorse alle generazioni future e caricandole di debiti, questa stessa Italia ha potuto contare, grazie all’euro, su un periodo insolitamente lungo di prezzi stabili e tassi molto bassi, cioè gli ingredienti principali per ogni fase di sviluppo, come non si vedeva dagli anni Cinquanta, ma ha gettato alle ortiche la sua grande occasione, facendosi anzi scudo dell’euro per nascondere le sue tante magagne. No, non è questa la strada.
Come ha scritto il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, nelle sue «Considerazioni finali», se l’Europa fosse oggi uno stato federale, sarebbe ingiustificato ogni allarme sulla tenuta del suo impianto monetario e finanziario. Ma così non è. Abbiamo un’Unione monetaria ma non un’Unione fiscale e un’Unione politica. Se dunque la crisi dell’euro qualcosa ci ha insegnato, è che abbiamo bisogno di più Europa, non certo di meno Europa.
r.moser@ladige.it
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