Ho scoperto che in Italia la cena è un algoritmo
Mi devo ancora abituare a questo algoritmo che è la cena italiana. Per fortuna ho avuto modo di fare molta pratica e tempo per analizzare il fenomeno.
All’inizio della stagione il nostro programma è stato disseminato di cene organizzate (cena con la squadra una sera, cena con lo sponsor l’altra). Né io né il mio stomaco possiamo lamentarci.
Ma sto ancora cercando di capire se è l’atleta o l’americano che è in me (o la combinazione esplosiva di entrambi) che mi rende a volte così difficile apprezzare un lento pasto multi-portata. E scrivendo «pasto» intendo qualcosa di completamente diverso da «cibo».
Lo sa il Cielo se amo il cibo: diciamo che, se non si sta ancora dimenando nel mio piatto (o se non mi dite cosa realmente sia) ci sono ottime probabilità che io almeno lo assaggi. Qualche tempo fa il nostro team manager mi ha convinto a mangiare qualche boccone di polpo, ventose e tutto. Quando mangio, io mangio. A parte i sapori e il gusto, guardo un piatto e vedo carboidrati, proteine e la benzina per i due allenamenti del giorno dopo. È business e questa cosa non sempre promette bene.
Nel poco tempo che ho passato in Italia, ho imparato che la cena qui è mangiare buon cibo, stare insieme, fare conversazione e raccontare storielle divertenti fra l’antipasto e il primo. In ogni cena a cui partecipo, sembra che ogni tavolo sia impegnato nella conversazione più divertente. La cena di cui parlo non era diversa.
Metà del ristorante era pienissima. Tra strette di mano e assalti furiosi di «ciao», non ci ho messo molto a trovare un posticino vuoto accanto al mio compagno di squadra Diego. Quando Mike ha detto che avremmo fatto una cena di squadra dopo l’allenamento, mi aspettavo un paio d’ore di scherzi, schizzi d’acqua, pizza al trancio con i miei compagni. Si era dimenticato di nominare gli sponsor. Si era pure dimenticato di menzionare la struttura del consorzio proprietario della squadra. Questo l’ho imparato da Andrea (che lavora nel marketing e che nell’occasione sedeva alla mia destra), mentre, con gli occhi spalancati, un po’ cercavo di capire dove fossero atterrati i miei compagni in questo mare di ospiti, un po’ mi interrogavo sulla capienza legale del ristorante e sulle norme anti incendio.
Contrariamente a quanto dicono i miei compagni e il mio allenatore, non parlo tanto italiano. Mi sono imbattutto nello spagnolo alla scuola superiore e, nel momento in cui l’ho abbandonato per studiare cinese l’ultimo anno, era meno che fluente. Anche se sono passati 8 anni, ascolto l’italiano con orecchio spagnolo, cercando di individuare le parole con radice simile o indizi sul contesto dl discorso. Se devo spiegare qualcosa a un compagno di squadra, di solito faccio un mix di qualche parola italiana, verbi spagnoli (mi sento più sicuro nel coniugarli), inglese e gesti.
Ad un certo punto della cena ero curioso di sapere qualcosa su uno degli ospiti. Ecco, più o meno, come si è svolta la conversazione:
«Diego, chi sta la donna… uhhhh… al lado de KG?».
«Chee? Cosa?».
«Sì… Chi… Who right? Sta la donna… al lado de… you know, next to (indicando con la mano) KG?».
«Aspetta… Uh wait. Non capito».
«Chi. Like quien…. Who… sta la donna next to (usando di nuovo le mani)…come si dice “next to”… KG?».
A questo punto Diego chiama un altro compagno, seduto poco lontano. Con lui ho provato in inglese.
«Chee? Ehhhhh cheeee? K? G?».
Ma nemmeno lui capiva. Dopo qualche minuto, cercando di non attirare troppo l’attenzione alla situazione, puntando il dito o con cose così, mi sono rivolto a Google translate.
«Ahhhhhhhhh. Capito. Capito. Chiiii (pronounced like key not CHEE). Eh, next to is “accanto”».
Come ho detto, è un casino.
Da straniero, in questi eventi sociali semi strutturati, uno si attacca a chiunque (o a qualunque cosa) possa salvarlo dalla pesantezza di queste asimmetrie linguistiche. Per me, questi paradisi di salvezza sono stati Diego, un rookie di 18 anni che non parla molto inglese, e un flan di ricotta che mi avrebbe tenuto occupato per non più di tre quattro morsi. Anche se morivo di fame, ho mangiato il più lentamente possibile. Ma non è vita usare un compagno come dizionario umano o pregare che un trapezio cilindrico di formaggio duri per sempre. E mentre sono sicuro che il fiume apparentemente senza fine di vino mi avrebbe fatto sciogliere, non credo che mi avrebbe fatto parlare italiano.
[[{"type":"media","view_mode":"media_preview","fid":"154701","attributes":{"alt":"","class":"media-image","height":"180","style":"float: right;","width":"180"}}]]Mentre me ne stavo la seduto, meditando sugli ospiti e sulle società che possiedono, su come quel signore ha dominato il mercato dei funghi secchi nel nord Italia (così mi ha detto Andrea), su cosa ci fosse per secondo e se mi fosse davvero piaciuto il flan, ho realizzato che le cene sono un altro motivo per imparare questa lingua.
Certo, ho fatto progressi con DuoLingo, ma frasi tipo «io ho ragazzo» e «la tigre mangia il tacchino nello zoo» non sono molto utili. Dando un’occhiata al piano didattico, avevo ancora molta strada da fare prima che le cose si facessero un po’ più interessanti. Avevo bisogno di imparare cose utili subito. Occupandomi solo di proteine e carboidrati, mi stavo perdendo molto. Volevo essere in grado di apprezzare la buona compagnia, di apprezzare la cena.
Quindi ho passato il tempo delle ultime due portate mormorando coniugazioni a me stesso. Ogni pochi minuti, mi piegavo verso Diego chiedendo una parola nuova, correggendo ogni coniugazione e pronuncia poi tornavo al mio mantra da monaco.
Annoiato con il suo telefono, Diego mi suggeriva ogni tanto una frase da ripetere. Ma è stato quando Diego ha cominciato a sussurrare le frasi, che mi sono insospettito. E quando mi ha chiesto di ripetere la frase ad un altro compagno, il qual è esploso in una risata fragorosa, ho capito il gioco. Adesso traduco con Google ogni «lezione» prima di ripetere. Anche se ancora non riesco a comunicare con i nostri sponsor in italiano, tutto sembra un po’ più simile a quello che mi ero immaginato fosse una cena.