In montagna meglio lenti o veloci?
In montagna meglio lenti o veloci?
In montagna c’è chi va con calma e chi va di corsa... Si incontrano un po’ tutte le rappresentanze umane, come in centro città del resto, ma queste due macro-categorie risultano tra le più evidenti.
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Tendenzialmente non c’è grossa simpatia tra le due fazioni: lo scialpinista classico per esempio, armato di mastodontico zaino dal peso indecifrabile, contenente l’occorrente per far fronte a qualsiasi imprevisto compreso l’allarme nucleare, perlopiù ribolle quando viene sorpassato da qualche agile camoscio in tutina attillata, che con l’Ipod nelle orecchie e il cardiofrequenzimetro al polso si appresta a concatenare migliaia di metri di dislivello, e parte in una serie di imprecazioni e iettature di ogni tipo.
Per contro di solito i seguaci del cronometro guardano con compassione questi bradipi delle nevi che arrancano appesantiti, talvolta li confondono con elementi stessi del paesaggio, quasi fossero piante, e se redarguiti sui rischi dell’eccessiva leggerezza rispondono che «in montagna essere veloci è sinonimo di sicurezza, in quanto si rimane esposti ai pericoli per un tempo inferiore», perché giustamente l’hanno sentito dire a qualche atleta professionista.
Stesse dinamiche si ritrovano d’estate per l’escursionismo, oppure nel mondo dell’arrampicata, con la bilancia che pende comunque a favore della velocità: verrete a sapere dai siti specializzati dell’ultimo record di velocità su The Nose, o sulla Nord dell’Eiger, ma mai nulla sui «record di lentezza», su chi ci ha messo di più insomma.
Normale direte voi, ci mancherebbe altro, ma vi voglio riproporre un aneddoto che trovo illuminante a riguardo: in un giorno d’estate di fine anni ’60 Mariano Frizzera e Graziano Maffei, straordinaria coppia di alpinisti roveretani, partono per scalare lo «spigolo dei Fassani», una via di roccia lunga circa 600 metri sull’impressionante parete Nord-Ovest di Cima Undici, nel gruppo della Vallaccia.
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Fortissimi ma sempre troppo umili, si portano tutto l’occorrente per bivaccare in parete, ma nel pomeriggio del primo giorno sono già in vetta. Il tempo è splendido, e invece di gioire del loro successo si mostrano sconfortati: «Che peccato, già finito...», «Beh, non torneremo mica subito a casa?!», «Noo! Con una giornata così è un peccato non dormir fuori!», «Hai ragione. Allora sai che facciamo? Ci caliamo con paio di corde doppie lungo la via, e attacchiamo le amache ai chiodi!», «Buona idea, dormiamo in parete e torniamo su domani!!»... E così fecero.
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A chi non conosce il posto aggiungo solo che la vetta di Cima Undici è costituita da un magnifico ed ampio pascolo erboso. Avrebbero potuto bivaccare comodamente lì in cima, ma l’esperienza non sarebbe stata ugualmente intensa.
Credo che quest’episodio si commenti da sé, e lasci trasparire la voglia di vivere la montagna in tutte le sue sfaccettature, assoporando a pieno l’avventura.
«Fretta non ne avevamo proprio», racconta Mariano, «andavamo in montagna per stare in montagna, mica per scappare a casa!». I pochi spazi di fuga dal lavoro volevano goderseli come si deve: «Non mettetemi fretta... corro già tutta la settimana, non fatemi correre anche in montagna il sabato e la domenica!».
Personalmente, mi sembra che queste poche parole suggeriscano un bello stile di andar per monti. Un approccio che va oltre la semplice pratica sportiva, oltre il collezionismo di mete da raggiungere, ma che si concentra sull’esperienza più intima, dove godere di ogni singolo attimo di un confronto tra Uomo e Natura tanto benefico quanto ormai raro nel nostro mondo attuale.
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