Chi usa la violenza ha sempre torto
Chi usa la violenza ha sempre torto
Nonostante gli squadristi violenti che, in nome di «No Expo», venerdì hanno messo Milano a ferro e fuoco, l'inaugurazione di Expo2015 è risultata una bellissima festa di popolo, emblema di un Paese che vuole risollevarsi e tornare a guardare con speranza al domani. La devastazione di auto e negozi da parte di teppisti protestatari, vigliacchi al punto di non mostrare nemmeno il volto nascondendosi da cappucci neri, richiama tutti ad una condanna fermissima e totale di fronte a tali manifestazioni antidemocratiche, e riapre la riflessione sull'idea della violenza come strumento di contestazione che anima, ormai di continuo, frange di scontenti sempre «anti» qualcosa.
Esprimere idee e posizioni diverse, anche dissenso esplicito se necessario, è parte viva e integrante della democrazia e della libertà di espressione. Anzi, è il sale che fa crescere una comunità, e la fa rafforzare, argomentando pensiero.
Manifestare il dissenso o la contrarietà di visioni, pubblicamente e insieme ad altri, è componente integrante e costitutiva della libertà di una nazione, un diritto-dovere che va difeso con convinzione. Nulla, però, in nessun modo, legittima la violenza, emblema degli anni peggiori dell'Italia, quando l'ubriacatura dell'ideologia e la convinzione della verità unilaterale, portarono negli anni di piombo alla strage sanguinosa di innocenti, al sacco delle città, e soprattutto all'uccisione della speranza imprigionata dalla paura e dalle devastazioni. Il ritorno della violenza nei cortei e nelle piazze in nome della contestazione, deve rimobilitare le coscienze, isolando e condannando tali forme di protesta. Senza se e senza ma. Perché chi usa violenza, ha sempre torto.
Tale condanna, espressa subito dai milanesi che sono scesi in strada immediatamente per difendere la loro città, per ripulirla dagli imbrattamenti, e ripristinare la civiltà della pacifica convivenza, deve diventare di tutti.
In primo luogo degli stessi manifestanti, quelli che - vedendo fra loro chi si armava di mazze e bastoni, nascondendosi dietro passamontagna e macabri travestimenti - non hanno fatto nulla per fermarli, per estrometterli, per cacciarli e denunciarli alla polizia e alle forze dell'ordine. Chi manifesta e non smaschera i conati di violenza che si insinuano dentro il corteo, ne diventa corresponsabile. Alimenta quel giustificazionismo che da sempre è il brodo di coltura dentro cui si moltiplicano germi infetti e crescono mostri pericolosi.
Centri sociali, gruppi di opposizione, sigle di base che contestano spesso per professione senza saper più per cosa, sono i primi a dover prendere le distanze dalla violenza, dallo scontato rito dei cortei «anti», dalle stantie liturgie degli arrabbiati per mestiere che invece di manifestare il loro pensiero, distruggono, imbrattano, sabotano, incendiano. E soprattutto devono far valere la ragione, sempre, sulle urla e le viscere, perché il sonno della ragione trova alimento nella presunzione ideologica di essere nel giusto, e quindi legittimati a fare di tutto. Anche distruggere, e ferire, e magari creare le condizioni per qualcosa di peggio. Tali violenze non possono trovare alcuna discolpa, né attenuanti. Nemmeno in nome della libertà di espressione, come «cattivi maestri» quali Erri De Luca hanno cercato di fare giustificando le violenze e i sabotaggi dei no-Tav. Parole di incitazione al sabotaggio, sottovalutando pericolosamente i rischi terrorismo ed emulazione che tali appelli sottendono, ricordano paurosamente gli anni bui delle P38, quelli insufflati dal delirio cieco e irresponsabile di schiere di intellettuali del tempo, di sottofirmatari di tragici appelli che risuonarono come condanne di morte per molti, a cominciare dal commissario Luigi Calabresi.
Non può esserci nemmeno speculazione politica, come in qualche caso s'è vista il 1° maggio, di fronte a fatti quali quelli di Milano. Le forze dell'ordine hanno contenuto le violenze, e a loro va un ringraziamento convinto. Ma di fronte a fatti del genere non ci può essere da parte di nessuno la tentazione di avvantaggiarsene nella polemica di giornata, come ha fatto il leghista Salvini. È solo squallido, e dimostra mancanza di coscienza di Paese oltre che di ritegno, visto che la Lega Nord era al governo durante i fatti di Genova alla Diaz. È legittimo esprimere il proprio pensiero contrario, anche sull'Expo (a dir il vero non s'è capito molto contro cosa si protestava a Milano: contro il mondo globalizzato? contro la fame dei popoli? contro l'Albero della vita o il padiglione del Qatar, non di proprio gradimento?).
Proprio un'occasione mondiale di riflessione, confronto, dibattito qual è l'Expo risulta uno spazio unico di manifestazione di idee, anche diverse, sul tema cruciale del cibo, dell'acqua, dei beni comuni e del vivere dei popoli. Papa Francesco lo ha dimostrato, puntando il dito su una certa idea di globalizzazione, intesa solo come finanziaria e delle merci, e non come solidarietà. E il suo messaggio incentrato sulla dignità dell'uomo e il volto di chi ha fame, esprimeva sicuramente più forza di cambiamento di chi nelle stesse ore si armava di caschi e bastoni. La stessa Carta di Milano può essere criticata perché venga migliorata, potenziata e rafforzata, come sulle pagine dell'Adige hanno fatto associazioni quali Ipsia del Trentino. Ma attraverso idee, proposte, indicazioni, elaborazioni, non con cortei «anti» e basta, il più delle volte accecati da visioni ideologiche di parte, incapaci di dialogare e di capire le ragioni dell'altro, oltre che di saper motivare le proprie.
L'odio verso il diverso, anche chi è politicamente, ideologicamente o socialmente diverso, genera soltanto distruzione e morte. Non miglioramento delle cose. Questo vale a Milano come a Trento, visto che anche da noi si assiste al ripetersi di azioni violente di piazza, cortei anarchici, occupazioni e distruzioni, spesso senza alcuna motivazione se non il semplice essere arrabbiati (che non basta per cambiare in meglio le cose).