Alpini e Schützen, un passo indietro

Alpini e Schützen, un passo indietro

di Franco De Battaglia

Caro De Battaglia, mi aggancio al suo intervento del 16 settembre scorso sulle croci della memoria posate dagli Schützen trentini sulla linea nostrana del fronte di guerra.
Quando è stata anticipata l’iniziativa europea a ricordo del secolo trascorso dal conflitto che ha insanguinato il nostro continente, non avevo dubbi sul fatto che l’Italia sarebbe stato l’unico paese europeo dove si sarebbe fatta celebrazione, invece che commemorazione di questo triste evento. Concordo pienamente con lei sul fatto che la sequenza di queste cerimonie, invece di portare consapevolezza, compassionevole memoria di tutte le vittime, e studio critico dei fatti avvenuti, rischia di reiterare nella coscienza degli italiani la retorica, la disinformazione e la supponente autoesaltazione di un’impresa militare. Che ai nostri giorni l’approccio della società italiana non sia cambiato rispetto al 1919, quando supportato da propaganda di regime, da storiografia compiacente, da disinformazione di massa fin dai banchi della prima elementare, si è creato il mito della quarta guerra di indipendenza che ha finalmente fatto l’Italia e gli italiani, lo si vede molto bene.
Mi è capitato fra le mani il numero di agosto della rivista «L’Alpino»: lo classifico sconfortante, deludente. Se questo è il clima in Italia, convengo con lei quanti danni possa combinare nella cultura e nelle coscienze una sequela lunga quattro anni di cerimonie e ricorrenze di foggia così militare.
E allora, per quanto riguarda la nostra terra, il Trentino, dico ben vengano le croci degli Schützen, pur nella polemica che hanno innescato. Almeno sono un messaggio che va a bilanciare la celebrazione a senso unico che si vuole propinare a tutte le latitudini della penisola. A mio avviso, se da noi non si attiva almeno un po’ di controinformazione, rischiamo di vedere un triste bis di quella marchiatura che si è dovuto subire un secolo fa, e ancora così evidente sul nostro territorio e nella nostra toponomastica.
E spero vivamente che l’adunata del 2018 si faccia altrove.

Luigi Roccabruna



Caro Roccabruna, la ringrazio di questa lettera, in cui lei espone i timori - suoi e anche miei - che il centenario di guerra serva, magari con le migliori intenzioni, a rinfocolare vecchie divisioni, a esasperare da una parte perché si forza dall’altra. Non va peraltro dimenticato che il Trentino le sue antiche ferite le ha già risanate. Ha superato l’austriacantismo servile e l’irredentismo retorico, la strumentalizzazione fascista e il rigurgito nazista. Attraverso l’accordo fra De Gasperi e Gruber (5 settembre 1946, esempio forse unico al mondo nella tutela delle minoranze), ha traghettato la «tirolesità» in Europa, facendone un ponte (Euregio) di collaborazione sopra le frontiere. Abbiamo le carte in regola con la storia, non dobbiamo lasciarci ora inghiottire dai gorghi del passato.
Il «suicidio» d’Europa, infatti, non l’ha provocato chi ha combattuto, da una parte o dall’altra e ne è rimasto vittima, ma lo scontro fra le potenze, la pochezza dei politici, la miopia arrogante dei generali che preparavano e volevano da tempo la guerra. Ma va pur detto che Battisti non era un «traditore» fu coerente nella sua scelta (capì, angosciato, che nessuna mediazione era più possibile, non tradisce chi combatte per la propria Heimat), che De Gasperi non era un «imboscato», che dalla sofferenza dei soldati e delle popolazioni (delle donne soprattutto, sole e «militarizzate») nacque la nuova identità trentina.
Continuo a preferire, caro Roccabruna, i fiori che ricoprono le trincee alle croci sulle montagne, e per questo mi auguro che tutti, a questo punto, sappiano fare un passo indietro. Lo facciano gli Schützen, lo facciano gli Alpini. Gli Alpini sono nel cuore del Trentino, (chi dimentica i tempi del presidente Bertagnolli e del Friuli?) ma non devono smarrire la loro identità, trasformata in epopea dalle pagine di Mario Rigoni Stern. Invece quel numero dell’«Alpino» stona. Celebra fin dalla copertina il generale Cantore, primo generale italiano morto al fronte, mente ispezionava, il 20 luglio 1915, le truppe sulla Tofana di Rozes. Era il «conquistatore» di Ala, medaglia d’oro per esser stato colpito in fronte da un cecchino austriaco mente si affacciava con il binocolo dalla trincea. Resta figura controversa il Cantore. Non fu sicuramente ucciso da «fuoco amico», come molti poi mormorarono, il foro del proiettile, nel pieno centro del berretto lo conferma. Ma la sua morte venne pianta da pochi. Era già, dopo appena due mesi di guerra, l’emblema del generale che la truppa e gli ufficiali detestavano perché non rispettava le loro vite. Li mandava all’attacco. Stava pianificando un assalto alla forcella di Fontana Negra, sul quale gli stessi suoi ufficiali avevano espresso forti dubbi. Era il generale la cui vicenda sarebbe stata poi indirettamente ripresa da Emilio Lussu in «Un anno sull’altopiano» quando i soldati, schifati dalla disumanità del loro comandante, gli preparano una trappola che poi non scatterà. Cantore non fu ucciso da fuoco amico, ma probabilmente (vedi Bruno Ongaro, sul Web Cai di Conegliano) a sparare il colpo del cecchinaggio mortale fu proprio un trentino, un Landeschützen di Ala, Attilio Berlanda, classe 1886 che lo confessò in punto di morte, come riportato sul «Gazzettino» del 26 novembre 1973 da Tito Corradini, un giornalista che molti ancora ricordano a Trento.
Facciamo tutti un passo indietro. Ricordiamo, con rispetto (e la commozione che molti provano) il tricolore che sale sulla Torre del Buonconsiglio il 3 novembre, ma gli Alpini rinuncino alla loro adunata a Trento nel 2018. Non ne uscirà gran che di buono. Gli Alpini, radunandosi, hanno cose molto più importanti da proporre per il Trentino, per l’Italia, per l’Europa.

fdebattaglia@katamail.com

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