Profughi in fuga dal terrorismo
Profughi in fuga dal terrorismo
L’anno che ci stiamo lasciando alle spalle ha visto un aggravarsi senza precedenti del dramma dei profughi asiatici e africani che cercano salvezza in Europa. Quanto sul modo di risposta a questo dramma, davvero epocale, potranno influire le orrende stragi terroristiche, rivendicate dagli estremisti islamici dell’Isis, che venerdì scorso hanno insanguinato Parigi, non è dato ancora di sapere.
L’Europa è sconvolta da questi attentati, tutti noi lo siamo, e la reazione anti-islamica, anti-immigrati, anti-rifugiati, con effetti di chiusura di frontiere e di rifiuto di accoglienza di profughi, è sempre pronta a scattare, fomentata da coloro che alimentano le paure per facili guadagni elettorali. Ma è una reazione non solo deprecabile, ma anche infantilmente cieca di fronte a un dramma che ha dimensioni imponenti e che costringe le nostre società, lo vogliano o no, ad affrontarlo seriamente.
Non è mia intenzione analizzare il terrorismo di matrice islamica, non ne sono in grado. Ma due cose credo di dover ricordare. Questo terrorismo non è un effetto del movimento di profughi, ma ne è una causa. Moltissimi profughi fuggono proprio da quei Paesi - la Siria, l’Afghanistan, l’Iraq; e poi la Somalia, la Nigeria, la Repubblica Centrafricana, il Mali, e altri dell’Africa subsahariana - flagellati dallo stesso terrorismo, nelle sue varianti e combinato in alcuni casi con la guerra, che ha insanguinato Parigi e altre città d’Europa. Lo stesso terrorismo ha raso al suolo i villaggi di questi profughi, distrutto le loro case o capanne, incendiato le loro chiese cristiane o le loro moschee, fatto saltare in aria i loro mercati affollati, seminato il panico nei quartieri delle loro città, incendiato pozzi petroliferi, avvelenato sorgenti d’acqua, assaltato convogli, ucciso vecchi e bambini, violentato donne, torturato e decapitato uomini.
Questo terrorismo, con le sue varie facce, ha ammazzato decine e decine di migliaia di persone nei Paesi dai quali tantissimi di questi profughi fuggono cercando una nuova vita in Europa. In secondo luogo, anche dalle stragi di Parigi del 13 novembre sta emergendo che molti degli autori sono giovani nati o cresciuti in Europa, così com’era accaduto in precedenti attentati, sia in Francia sia in Inghilterra. Ci sarà anche qualche terrorista venuto da fuori, magari anche intrufolatosi tra i profughi, ma sono eccezioni. Il che pone altri problemi, accanto alla lotta internazionale per combatterlo, per individuarne le centrali organizzative, la rete di appoggi, di finanziamenti, di complicità. Ci pone altri problemi molto più vicini di quanto si pensi a quelli che poneva il terrorismo rosso e nero che abbiamo conosciuto in Italia tra gli anni Sessanta e Movanta del secolo passato e che causò la morte di quasi 400 persone: come mai questi giovani che sono cresciuti accanto a noi, nelle nostre scuole, nei nostri quartieri, nei nostri campi sportivi, che hanno respirato la nostra vita quotidiana, cantato le stesse canzoni, visto gli stessi film decidono a un certo punto di fare stragi, di ammazzare innocenti in nome di una ideologia, politica o religiosa che sia, di un sistema di valori alternativo a quello nel quale sono cresciuti?
Come mai mettono una bomba in una stazione ferroviaria, su un treno, in una banca, in una piazza, o si fanno esplodere in un teatro? Come mai ammazzano senza pietà persone, innocenti e giuste, che hanno solo il torto di non pensarla come loro o di trovarsi casualmente nel luogo dove è stato deciso di spargere terrore?
Alla base ci sono ideologie, di matrice politica o religiosa, che tracciano una linea netta tra la vita che vale e quella che non vale niente. E tra le vite che valgono e quelle che non valgono niente. Vite che possono essere schiacciate come insetti senza particolari turbamenti in nome di una causa superiore. Mohammed Emwazi, il «boia dell’Isis», soprannominato Jihadi John, che è stato dato per ucciso in Siria da droni americani poche ore prima delle stragi di Parigi, aveva dieci anni quando era arrivato a Londra dal Kuwait con la famiglia, normalissima, stabilitasi in un bel quartiere, come scrive Fabio Cavalera sul «Corriere della sera» di sabato 14 novembre. Un ragazzino timido e studioso, lo ricordano alla scuola elementare cattolica St Mary Magdalene, simpatico e piacevole, che sognava di fare il calciatore, tifava Manchester United e adorava i Simpson. Poi ha conosciuto degli amici…
L’anno scorso, a ventisette anni, si è fatto riprendere dalla tv, mascherato, a tagliare la gola a sette «infedeli», inginocchiati davanti a lui. E io ho pensato a come i brigatisti rossi, nel 1988, uccisero a Forlì il mite e giusto professor Roberto Ruffilli, con cui avevo fatto un esame di storia e che nel 1983 era anche venuto a Brentonico alla scuola della Rosa Bianca a ricordare Aldo Moro e Vittorio Bachelet, assassinati dalle Brigate Rosse. I terroristi si fecero aprire da Ruffilli la porta di casa, lo fecero inginocchiare e gli spararono alla testa. Anche lui era un «infedele» da schiacciare senza pietà.
Anche gli uomini e le donne del commando che lo uccisero provenivano da famiglie normalissime, erano stati ragazzine e ragazzini timidi e studiosi, simpatici e piacevoli, avevano frequentato anche scuole cattoliche, o normalissime scuole pubbliche, avevano sognato di fare se non il calciatore la maestra, tifato Juve o Milan, i Beatles o i Rolling Stones, adorato Braccobaldo o Charlie Brown. Il profilo dell’infanzia e dell’adolescenza dello stragista nero che mette la bomba su un treno, alla stazione o in un altro luogo affollato e ammazza decine di persone non era poi molto diverso. Bisogna allora leggere Dostoevskij prima del Corano per capire questi terroristi islamici cresciuti tra di noi. E risfogliare anche la storia d’Italia, e d’Europa, più recente, prima di quella della Siria, del Vicino Oriente o del mondo arabo. La civiltà europea ha fatto e detto molto in materia di terrorismo, anche in anni recenti. È ipocrita ignorarlo e guardare al terrorismo di oggi come se fosse uno strano mostro venuto da un altro pianeta. Magari con i profughi che rischiano la vita, e spesso la perdono, fuggendo sui barconi.
(Questo testo è la prima parte di un articolo che uscirà sul numero di dicembre della rivista «Il Margine»)