L’orso, la mucca e l’allarme inquinamento
L’orso, la mucca e l’allarme inquinamento
«Cowspiracy: The Sustainability Secret» è un documentario di Kip Andersen e Keegan Kuhn che indaga la diffusa opacità attorno alle responsabilità dell’industria agroalimentare (in particolare dell’allevamento) nella crisi ecologica e in particolare nella produzione di gas serra.
Il documentario muove da una serie di dati statistici ufficiali, provenienti da agenzie delle Nazioni unite, che confutano la vulgata corrente veicolata da mass media, grandi organizzazioni ecologiste, istituzioni politiche.
Si sottolinea, per esempio, che l’industria dell’allevamento di bestiame è il principale responsabile delle emissioni di gas serra: nel complesso delle sue attività, spesso particolarmente crudeli, inquina molto più dell’intero sistema dei trasporti.
E queste emissioni, considerata la tendenza del settore agricolo, sono destinate a aumentare dell’ottanta per cento da qui al 2050.
Interessante anche la questione acqua: l’industria dell’allevamento (per produrre carne o latte) consuma annualmente dai 128 ai 287 miliardi di litri all’anno.
Negli Stati Uniti una quota tra l’ottanta e il novanta per cento dei consumi di acqua è imputabile alla sola agricoltura (nel mondo intero questa stima è attorno al 30%).
Tanto che l’autore del documentario ironizza sulla sua vecchia scelta ecologica di «razionare» le docce: bastava mangiare mezzo hot dog in meno e per due mesi non ci sarebbero stati problemi a spassarsela senza sensi di colpa tra shampoo e bagnoschiuma.
In realtà i consumi domestici di acqua, spesso oggetto di criminalizzazione dei cittadini da parte delle istituzioni, rappresentano una percentuale quasi irrilevante del totale (dal 3 al 5%).
Su scala globale, prosegue Kip Andersen, l’industria dell’allevamento e la pesca sono la causa principale di una serie di processi esiziali in atto: l’estinzione delle specie, la distruzione di habitat terrestri e oceanici, il consumo di suolo, la contaminazione delle acque, l’iperproduzione di rifiuti eccetera.
La stessa distruzione della foresta amazzonica va imputata per nove decimi all’allevamento.
Anche lo sterminio di fauna selvatica è spesso associato all’espandersi dell’agroindustria.
Diecimila anni fa, la fauna selvatica rappresentava il 99% degli animali sulla terra, oggi poco meno di quella percentuale (98%) è costituita da capi di allevamento e da esseri umani.
Abbiamo un problema serio del quale è sintomatico l'abnorme utilizzo di risorse per foraggiare animali anziché rivolgerle direttamente all'alimentazione umana.
Eppure sia i governi sia le principali organizzazioni ambientaliste (smascherate dal cineasta americano) sembrano non accorgersene oppure minimizzano.
Perché l’agroindustria è un enorme volano economico e pure uno sponsor di qualche sodalizio «ecologista».
Ma anche perché in fin dei conti si dovrebbero mettere in discussione, faticosamente, abitudini - specie alimentari - assai diffuse, come il consumo eccessivo di latticini e di carne.
Eppure, anche tralasciando gli effetti sanitari (e i relativi costi sociali), sono enormi le esternalizzazioni provocate dall'agroindustria: il risparmio consentito da metodi industriali pesantemente inquinanti finisce a carico dell'intera collettività. Il decisore politico dovrebbe preoccuparsi di contabilizzare questi costi e di addebitarli puntualmente a chi li produce; ma ciò non avviene, altrimenti il «sistema» subirebbe un forte ridimensionamento.
Fatto sta che il problema, apparentemente, non esiste. Ma in realtà, c’è eccome. E si aggrava giorno dopo giorno.
In questo contesto, il Trentino, sarebbe davvero saggio e all’avanguardia se oltre a mettere in vetrina improbabili contributi ecologici (come i bua all'idrogeno per i Mondiali di Fiemme) valorizzasse i suoi orsi come simbolo di una consapevolezza ambientale ormai indifferibile.
Come simbolo dell’urgenza di nuove politiche per il settore agroalimentare, che per molti versi presentano criticità serie anche in questa terra di montagna.
Come simbolo della necessità che gli umani, dopo tanta invadenza, facciano un passo indietro (anche con alcune forme «montane» di allevamento di bestiame), rispetto al resto della natura.
Invece, si producono ordinanze provinciali per la rimozione o l’abbattimento di orsi definiti, in documenti ufficiali, con un'aggettivazione surreale e grottesca quale «dannosi».
Anziché mettere al centro la questione sollecitata dalla presenza nelle Dolomiti dell’orso e di altri predatori (come i lupi o le volpi), ovvero l’urgenza di un riequilibrio fra noi e la natura, si assecondano reazioni emotive, del tutto irrazionali o politicamente strumentali.
Come se i pericoli più concreti (certificati dai dati statistici) per gli esseri umani in montagna, nei boschi o altrove non fossero altri, per esempio la presenza di zecche, di vipere, di cani sguinzagliati o di cacciatore. Oppure, come mi fa notare un’amica, la mania dei selfie, che uccide più degli squali: una dozzina le vittime l’anno scorso...
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