La svolta che serve alla Cooperazione

La svolta che serve alla Cooperazione

di Pierangelo Giovanetti

L e dimissioni di Giorgio Fracalossi da presidente della Federazione Trentina della Cooperazione a nemmeno un anno dalla forzata elezione sanciscono platealmente la crisi profonda del sistema di governance delle cooperative trentine. Non si tratta della rinuncia di un singolo: è il fallimento dell'intero gruppo dirigente della Federazione, già evidente con lo sciagurato quarto mandato di Diego Schelfi, incapace di rinnovarsi e chiuso su se stesso a riccio, in maniera autoreferenziale a difesa della propria sopravvivenza. 

Tutto questo mentre l'ultracentenario sistema della cooperazione trentina, così centrale nell'economia del territorio, sta vacillando pericolosamente, e rischia di disgregarsi per l'incapacità dimostrata negli ultimi anni di riforme strutturali, nella totale mancanza di strategia futura su come reinventare la cooperazione nel ventunesimo secolo, al di là della solita vuota autocelebrazione.

Con la rinuncia di Fracalossi, imposto dall'establishment della Federazione per impedire il cambiamento e perpetuare uno stato di cose e di gestione ormai insostenibile, la crisi del sistema è esplosa. I tentativi di queste ore di pilotare una successione «guidata», come è stato fatto dieci mesi fa, sono un ridicolo tentativo di tappare la falla alla vecchia maniera, con la cooptazione interna da un gruppo ristretto, senza ricircolo di uomini e di idee. Se questa volta non ci sarà un ricambio strutturale, con un confronto aperto alla luce del sole, coinvolgendo i soci, mettendo in campo in maniera trasparente proposte diverse, rendendo contendibile la guida della Cooperazione al migliore e non al cooptato, il destino della creatura di don Guetti è già segnato.

I nodi che oggi vengono al pettine non sono figli della crisi economica degli ultimi otto anni. Da questa, eventualmente, sono stati solo evidenziati, accelerando la presa d'atto. Innanzitutto le criticità di un sistema restìo a fare rete, a creare economie di scala, a razionalizzare i costi, in un allargamento pletorico di organigrammi, di sedi, di prebende, di assunzioni per troppi anni non supportate dal merito ma da spinte clientelari o da favori individuali. 

La fragilità del sistema delle Casse rurali come delle Famiglie cooperative, affidate a gruppi dirigenti locali spesso non all'altezza del compito e incapaci di controllo prima ancora che di strategia, era nota da tempo. La corsa alle fusioni delle Casse rurali delle ultime settimane, cercando di salvare il salvabile di un sistema che ha registrato solo nel 2015 oltre 110 milioni di euro di perdite e rischia di essere inghiottito a livello nazionale, è stata a lungo ignorata e osteggiata nella pretesa dell'autosufficienza, convinti di continuare a mietere redditi in maniera automatica sugli interessi dei prestiti, senza sforzarsi di offrire servizi alternativi e qualificati.

I costi di sovrastruttura del consumo cooperativo senza capacità di fare massa critica e di adottare centrali d'acquisto più vantaggiose, nella presunzione che l'autoproclamarsi «portatori di valori» fosse sostitutivo della capacità di stare sul mercato, innovare il prodotto e attuare economie di scala, hanno radici profonde. Ma si è sempre ritenuto che fosse compito della politica e dell'intervento finanziario pubblico quello di compensare le inefficienze, nel nome di don Guetti. Le vacche magre anche per la Provincia hanno mostrato semplicemente che il «re è nudo». Senza un progetto complessivo, un'idea rinnovata di come essere distribuzione sul territorio, magari in maniera polifunzionale, il sistema non regge. E le prime a sfilarsi sono le stesse cooperative, che voltano le spalle al Sait. 

L'altro grosso nodo irrisolto è la mancanza di una classe dirigente adeguata a tutti i livelli, consapevole del ruolo e della delicatezza di essere uno dei pilastri economici su cui si regge il Trentino. In questi anni, dalle cooperative del vino al latte a quelle edilizie per citarne solo alcune, è mancata la capacità manageriale e di indirizzo strategico, prima ancora che la visione. La questione cruciale della selezione della classe dirigente è stata del tutto ignorata, mettendo ai vertici inadatti al ruolo, spesso mossi solo da invidie, gelosie, rancori e voglia di rivalsa sulla cooperativa del vicino, in una corsa folle ai gigantismi, nella convinzione che vi fosse sempre qualcun altro a pagare il conto, se le cose fossero andate male.

In una totale irresponsabilità della gestione delle risorse collettive. L'asfitticità della classe dirigente si è resa in questi anni impietosamente lampante ai vertici della Federazione, con l'accanimento terapeutico delle presidenze Schelfi, nell'angoscia del ricambio, che qualcuno arrivasse a chiedere ragione di determinate scelte (o non scelte), di sprechi, di ridondanze di personale e di struttura, di circoli ristretti dei soliti noti presenti in decine di consigli d'amministrazione, sempre gli stessi, con l'ansia di controllar tutto, di presiedere a tutto, di decidere tutto, ma soprattutto d'impedire che qualcuno potesse portare idee nuove e mettere in discussione il sistema.

Un apparatnik che è franato su se stesso, rendendo spasmodica la ricerca di un successore, dell'uomo «fidato» garante del Gran Consiglio uscente. Senza parlare dei costi che la Federazione ha, del personale (oltre 180 dipendenti), dei servizi resi alle cooperative che la sostengono, del finanziamento che rischia di saltare ora che le Casse rurali passano in pochi mesi da 40 a 15, riducendo la contribuzione. Infine c'è la questione dei soci, che in teoria dovrebbero essere gli azionisti, e non vengono coinvolti nemmeno su una scelta importante come il cambio di vertice alla Federazione. Soci che non sono informati o non hanno gli strumenti per controllare e accorgersi di quando il management della loro cassa rurale non ha la situazione sotto controllo. O non sono in grado di cambiare la guida quando non funziona, e sono troppo deboli per incidere seriamente.

L'uscita di scena di Fracalossi, che ha dimostrato coi fatti che conta di più Cassa centrale della Federazione, ha messo in moto un processo che rischia di portare alla stessa dissoluzione della Federazione, se non affrontato adeguatamente. La presidenza di via Segantini non può più essere un qualcosa deciso fra quattro mura, dal cda uscente, in maniera opaca (Fracalossi disse di «essere stato preso per sfinimento», per paura che potesse vincere Geremia Gios), senza alcun vero confronto con l'esterno. 

La nuova leadership della cooperazione deve essere «contendibile», decisa sulla base di programmi e di idee, esposte in maniera pubblica, discusse apertamente non con finte riunioni di territorio in cui si sa già prima il nome del prescelto. Le cooperative di primo grado devono avere un ruolo forte, i soci stessi devono venire coinvolti (questo giornale si mette a disposizione per un confronto aperto, fra candidati diversi, come già sull'Adige di oggi viene fatto per la Cassa Rurale di Rovereto). La Cooperazione trentina è rimasta troppo a lungo una foresta pietrificata, incapace di rinnovarsi di fronte alle sfide del tempo.

L'illusione di vivere di rendita e di autocelebrazione oggi può risultarle fatale, con rischi enormi per l'economia, l'occupazione, la tenuta sociale del territorio trentino. La scelta del Presidente stavolta dovrà segnare un cambio di rotta. Una vera e propria svolta. Di metodi, prima ancora che di idee. Pena altrimenti, se non la dissoluzione, l'insignificanza e la marginalità nell'economia del Trentino di domani.

p.giovanetti@ladige.it
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