Crescita, cosa manca a Trento

Crescita, cosa manca a Trento

di Pierangelo Giovanetti

Dopo quattro giorni di incontri e confronti su «i luoghi della crescita», che hanno visto Trento protagonista del Festival e capitale del dibattito sull'Economia, è lecito domandarsi se il Trentino è tra questi «luoghi della crescita» di cui economisti, politologi e premi Nobel internazionali hanno a lungo discusso. A prima vista molti fattori - dal reddito pro capite fra i più alti d'Italia alla giacenza sui conti bancari superiore alla media europea - concorrono a considerare questa nostra provincia a Statuto speciale sicuramente un luogo del benessere, quindi favorito da sviluppo e crescita. Confrontando tale realtà con le città e i territori più dinamici d'Europa e del mondo - a detta degli esperti che sono intervenuti - Trento offre sulla carta condizioni favorevoli e attrattive a un dinamismo economico, a una vivacità imprenditoriale e di idee, a un miglioramento di opportunità per il futuro.

Il Trentino può vantare, infatti, una qualità della vita alta, un territorio bello da viverci, un'università di riconosciuto livello, la presenza di istituti di ricerca qualificati e avanzati nel mondo, una scuola di valore, e anche un tessuto sociale ricco di partecipazione e senso comunitario.
Bastano tutti questi elementi a garantire per il Trentino anche in futuro lavoro, crescita, opportunità, mobilità sociale, condizioni economiche e di vita per lo meno pari al passato? No, secondo gli economisti e gli studiosi di prestigiose università intervenuti in questi giorni al Festival: tutto questo è importante, ma non basta. Serve un qualcosa che al Trentino sembra mancare: l'apertura al nuovo, la propensione al rischio, la disponibilità a mettersi in gioco, il dinamismo di chi non si accontenta di come si è fatto in passato ma è pronto a cambiare, a rinventarsi le cose e il futuro nel nuovo contesto in cui ci si viene a trovare.

Il tutto dentro la convinzione profonda che il merito e la competitività fanno progredire più del «tutto garantito», senza far venir meno i compiti di inclusione e di solidarietà a cui una comunità matura, civile e evoluta è chiamata. Trent'anni di risorse a disposizione superiori alla ricchezza prodotta (come è avvenuto per l'Autonomia trentina fino al 2009, l'anno in cui i bilanci sono cominciati a calare), hanno finito per far ritenere a molti in questa terra - a tutti i livelli, dai dipendenti pubblici alle categorie, agli imprenditori, perfino agli erogatori di welfare - che il benessere è garantito a prescindere dalla crescita, non ha bisogno della produttività, può far a meno dell'innovazione e della riorganizzazione. Per tre decenni si è fatto così, grazie ai soldi di Mamma Provincia: perché non si può continuare a fare come si è sempre fatto?

È questa oggi la vera debolezza strutturale del «sistema Trentino», la quale mette a rischio il suo futuro di «luogo della crescita». Lo si percepisce quotidianamente nelle resistenze fortissime di fronte a ogni tentativo di modifica delle cose e dello status quo, all'introduzione di riforme, alla riorganizzazione istituzionale come del welfare o della produzione manifatturiera. Non che tutte le riforme e i cambiamenti siano, per loro natura, buoni, appropriati o efficaci. Ma il rifiuto è preventivo, non si entra nemmeno nel merito o nel tentativo di innovare i processi.
Anche le riforme che paiono ineluttabili - come le fusioni dei comuni o delle casse rurali - vengono subite, e non sono invece al contrario occasione per rinventarsi il modo di fare banca sul territorio e con il territorio, o di essere comunità amministrativamente più grande ma capace di tenere vivo il territorio e la partecipazione con nuove forme e nuovi strumenti. Non basta infatti unire i comuni come ormai molti amministratori sembrano convinti di dover fare. Serve anche trovare progetto, forme di raccordo con i singoli paesi, distribuzione dei servizi nelle varie località, capacità di ragionare insieme oltre il localismo, ma identificando obiettivi alti e capacità di spendere meglio le risorse che i comuni ancora hanno.

Stessa cosa vale anche sul fronte imprenditoriale. Il passaggio dalla logica dei contributi o del lease back, a quella del «fare rete» fra le imprese, al presentarsi uniti sui mercati internazionali, al comprendere che le nuove prospettive dell'imprenditoria 4.0 passano attraverso la rivoluzione immateriale di internet, e alla necessità di contraporre intelligenza, flessibilità produttive e un diverso rapporto con i consumatori, è ancora troppo lento e faticoso. Nella società civile (e in una buona parte di quella politica) permane tuttora dominante l'idea che ciò che è industria, produzione, utilizzo dell'energia, globalizzazione, organizzazione aziendale, siano un qualcosa di negativo, di evitabile, di contrastabile, in nome magari dello stipendio fisso a fine mese e del posto pubblico garantito, o in nome di antimodernismi crescenti che moltiplicano comitati di opposizione e gruppi di contrari a prescindere, di fronte ad ogni novità, a ogni iniziativa economica, a ogni investimento. Quasi cullandosi nell'illusione che, siccome negli ultimi trent'anni abbiamo avuti più soldi dallo Stato di quanto l'Autonomia riusciva a produrre da sé, tale condizione sia eterna e possa perpetuarsi nel futuro, pur avendo già ora bilanci della Provincia che a metà anno cominciano a soffrire di liquidità, con disponibilità di cassa ristrette rispetto a quelle di competenza, nella speranza che il Pil un domani torni a crescere o che si sblocchi il patto di Stabilità.

L'incapacità a capire i tempi nuovi e a saper innovare la si riconosce anche di fronte ai rinnovi di contratto del pubblico e della scuola, dove non c'è la percezione che aumenti di stipendio sono ormai possibili solo di fronte ad aumenti di produttività, a miglioramenti organizzativi, alla capacità di espletare meglio i servizi con minore dispendio di risorse. Perfino di fronte a novità importanti come l'introduzione del trilinguismo - pur nell'improvvisazione in cui è stato portato avanti - si è assistito a freni, ostacoli, blocchi, contrarietà, invece di mettere in atto energie positive per migliorarne l'inserimento. E così pure di fronte ad ogni delibera pubblica, appalto, progetto davanti a cui l'unica reazione a cui si assiste è il «no», il ricorso al Tar, il blocco dei lavori, l'insabbiamento nelle commissioni, le lungaggini burocratiche che vanificano il provvedimento.

La chiusura di fronte ai cambiamenti epocali in atto la si riscontra anche nei confronti della sfida degli immigrati. È vero che ha una portata enorme, mette in discussione molte delle nostre sicurezze, modifica gli scenari a cui eravamo abituati. Ma gli esempi delle società più dinamiche di tutto il mondo - come il Festival dell'Economia ha mostrato - dicono che dove c'è tolleranza dell'altro, del diverso, e capacità di essere società multi-etnica mettendo in gioco le risorse giovani in arrivo, la crescita c'è, e si crea benessere che viene ridistribuito. Del resto già oggi, senza i 50.000 trentini di origine straniera che vivono e lavorano nella nostra comunità, interi settori di attività risulterebbero bloccati o azzoppati.

Il Trentino ha in mano delle buone carte per risultare un «territorio della crescita», ma per farlo ha bisogno di un profondo cambiamento culturale: la capacità di uscire dal torpore creato dalle tante risorse avute a disposizione nel recente passato. Facendo proprio il motto di Steve Jobs: continua ad aver «fame di nuovo», coltiva la creatività dell'inventare con idee originali.

p.giovanetti@ladige.it
Twitter @direttoreladige

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