Coop: svolta radicale o è destinata a morire

Coop: svolta radicale o è destinata a morire

di Michele Andreaus - No

La cooperazione ha avuto un ruolo fondamentale, nella crescita non solo economica del Trentino, ma anche e soprattutto nell'incremento di quel capitale sociale che, sebbene intaccato, ancora oggi rappresenta la base del benessere sociale e della qualità della vita che caratterizza il nostro territorio. Capitale sociale che non nasce con la cooperazione, ma che affonda le radici nell'essere territorio di comunità montane, di uso collettivo di beni pubblici, nella necessità di unire le forze per meglio reggere la difficoltà del vivere in territori che oggi ci sembrano fatati, ma che nei secoli scorsi erano ostili, duri.

La cooperazione nasce e si sviluppa in questo humus, che prima ha generato, ad esempio, la Magnifica Comunità di Fiemme, gli usi civici e così via. Questo capitale sociale ha consentito un salto di qualità nella seconda metà dell'ottocento, con la nascita della cooperazione di consumo, agricola, del credito cooperativo, che non era poi molto diverso dell'odierno micro-credito di Yunus. Non sono state solo intuizioni geniali di una persona, ma semmai il merito di don Guetti è stato quello di catalizzare e convogliare quel capitale sociale in progetti volti ad arricchirlo ulteriormente, trasformandolo da strumento di protezione dalle ostilità in strumento di crescita economica e sociale, passando in un certo senso dalla difesa all'attacco, alla crescita.


Nel tempo la cooperazione è cresciuta rigogliosa, è diventata, come naturale, vera e propria agenzia di pensiero e di visione di uno sviluppo territoriale, con inevitabili e naturali collegamenti via via più forti con la politica, in una logica di sano confronto attorno ad una visione di sviluppo che poi deve generare azioni e scelte concrete. Lo stesso ruolo lo hanno avuto e lo hanno le associazioni di categoria, i sindacati, lo ha avuto in parte l'Università.

A un certo punto però questo volano di crescita ha incominciato a chiudersi su se stesso, a crescere nell'autoreferenzialità, nella perpetuazione di una classe dirigente inizialmente valida, ma cristallizzata da un bassissimo ricambio, gestito con il contagocce e non certo improntato sul merito e soprattutto sulla sana capacità di mettere in discussione un modello. L'autoreferenzialità, ma il discorso potrebbe valere anche per certa politica, ha progressivamente allontanato i vertici del movimento cooperativo dall'evoluzione del contesto. La torre eburnea eretta in via Segantini, lato destro e sinistro, spesso puntellata da robusti pali di sostegno di natura politica, ha impedito (o consentito) di non vedere il cambiamento, di perpetuare comportamenti, di sostenere che tutto va bene.

Ora la torre evidenzia pericolose crepe, i piani alti sono di fatto disabitati, con fughe di presidenti, di direttori, presidenti più o meno ombra e presidenti in pectore figli di vari compromessi, dove ogni compromesso è per definizione al ribasso, dato che non esiste, o è molto difficile, il compromesso al rialzo.


Ora i tempi sono cambiati rispetto a quando l'attuale classe dirigente della cooperazione ha preso in mano le redini. Schemi, approcci e soluzioni che oggi caratterizzano questo mondo sono figli di un contesto che non è più quello che loro conoscono e che cambierà ancora. Compromessi e soluzioni ideate a tavolino per perpetuare il ruolo e il potere personale sono pericolosissimi. Serve non solo un cambio di passo, ma idee che non possono che venire da persone di discontinuità, in grado di mettere tutto in discussione, non con una visione conservatrice e immobilista, ma realmente innovativa, in grado di leggere con lucidità il contesto. Ritorni al passato cinicamente spacciati per «nuovismo» sarebbero pericolosissimi. Il modello di business di via Segantini semplicemente è non sostenibile, però cosa fare? Il «cosa fare» non deve guardare al passato. Se così fosse, le crepe della torre eburnea si allargherebbero fino a farla crollare. Traghettatori privi di direzione non possono che girare a vuoto nel porto, con venti di burrasca che portano sugli scogli. Finora nulla di tutto ciò si è sentito nei dibattiti che animano i due lati di via Segantini.

Alcuni spunti in ordine sparso, a beneficio di un dibattito che sinora ha visto contrapposizioni di slogan più o meno vuoti (ad esempio «centralità del socio»: concretamente, cosa vuol dire?). Primo: quale sarà il ruolo dei consorzi di secondo grado (Cavit, CLA, Melinda, Concast?)? Prenderanno il posto di una Federazione svuotata? Giocheranno a uomo o a zona? A uomo rappresentando e accettando al loro interno solo cooperative, o a zona, aprendosi ad aziende private che operano nello stesso mercato? Già ora ci sono collaborazioni, più o meno evidenti, tra cooperative e non cooperative in molti settori. Ma allora, perché non immaginare di fare un passo in più, facendo squadra? Non sto dicendo che debba essere fatto, ma perché non prenderlo in esame, salvo poi magari decidere che non sia il caso?

E ancora, come va declinato oggi il ruolo della rappresentanza? È un mondo in crisi, non solo nella cooperazione, ma in generale: dai partiti ai sindacati, fino alle associazioni di categoria si è ancorati al passato senza capire spesso il presente e il futuro spaventa. Quindi quale sarà il ruolo ed il compito della Federazione? Certo c'è il vincolo finanziario e solo per la fusione di alcune casse rurali i costi non sono sostenibili in quanto non coperti dalle entrate. Ma a loro volta i costi dovrebbero essere figli di un progetto, di una strategia: se questa manca, tutti i costi sono superflui, ovvero la struttura diviene solo funzionale a sé stessa, quindi a maggior ragione uno spreco di risorse. Se così fosse, andrebbe chiusa domattina e lasciato spazio ai consorzi? Oppure divenire struttura di mera erogazione di servizi con un ruolo «politico» dei consorzi?


Passando al lato sinistro di via Segantini, di tutta la questione su gruppo unico o gruppo territoriale, non si è sentita una sola parola sul modello di business della banca di comunità. Io sono convinto che nei prossimi cinque anni il mercato bancario vedrà una ridefinizione profonda e radicale dei protagonisti, della definizione stessa di mercato e del ruolo della banca, senza considerare il ruolo della tecnologia nella disintermediazione della banca stessa. Il dibattito gruppo unico o meno, rischia di essere del tutto teorico, fatto con figurine che già oggi sono sbiadite. Fusioni fatte senza un piano strategico, generano talvolta mostri a due teste, o teste con due corpi, che non solo non dialogano tra loro, ma lottano tra loro, facendo danni inimmaginabili. Ecco, quindi sarebbe interessante anche qui aprire un po' di finestre, creare qualche sana corrente d'aria che faccia svolazzare qualche foglio sulle scrivanie dei piani nobili, che qualcuno provi a riscrivere da zero quello che sarà il credito cooperativo nei prossimi dieci anni.

In definitiva, quello che sta succedendo, non è un castigo di Dio, ma è semplicemente figlio di un contesto che è cambiato. I segnali c'erano tutti, già vent'anni fa qualche cosa si poteva intuire: potrei citare interventi a convegni del compianto Giuseppe Zadra o di Rudi Bogni, che tra l'altro sarà a Levico Terme il prossimo 3 novembre. L'errore del piano nobile di via Segantini, del quale nessuno pare voglia chiedere conto, è di non aver minimamente letto o voluto leggere questi segnali, facendosi trovare del tutto impreparati ad affrontare un cambiamento epocale. Ora questo cambiamento viene giocato in difesa, ma il cambiamento, soprattutto quando è epocale, crea anche opportunità, nuovi spazi, ma questi li può vedere sono chi gioca con lo sguardo in avanti, in attacco, non con lo sguardo rivolto al passato.

Il Trentino penso non possa fare a meno della cooperazione (e viceversa), ma oggi è il concetto stesso di Trentino (leggasi autonomia) ad essere alla vigilia di un cambiamento profondo e radicale, ma questo è un discorso ulteriore e ben più ampio.

Michele Andreaus - Professore di Economia aziendale all'Università di Trento -

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