Il caro prezzo della Brexit
Il caro prezzo della Brexit
Quattro mesi fa, il 23 giugno scorso, gli inglesi hanno votato l'uscita dall'Europa, facendo vincere al referendum - seppur di poco - i favorevoli alla Brexit. Benché siano trascorsi soltanto pochi mesi e soprattutto il divorzio non sia ancora entrato in vigore, i primi effetti sui britannici sono già percepibili.
Da giugno ad oggi la sterlina ha perso il 20% del suo valore rispetto al dollaro, con vendite massicce di valuta ogni settimana. I prezzi al consumo hanno cominciato a salire, poiché il 50% di merci acquistate dagli inglesi vengono dall'estero, quindi con valuta diversa dalla sterlina. Nel mese di settembre l'inflazione è cresciuta all'1%, viene stimata al 2,2% nel 2017 (fonte Bloomberg) con una crescita l'anno successivo al 3%. Sono rincarati soprattutto abbigliamento ed energia, dato che il Regno Unito ormai importa petrolio dall'estero. Nel rapporto import-export con l'Europa, la Gran Bretagna si procura il 60% dei beni dalla Ue, mentre esporta nella Ue solo il 6% dei suoi beni. Ciò vuol dire che, non appena diventerà effettiva la Brexit - hard o soft che sia - scatteranno dazi doganali e tariffe non agevolate (come invece avviene tra i membri Ue), con un rincaro esponenziale dei prezzi al consumo e un impoverimento del potere di acquisto, soprattutto dei ceti più bassi a reddito fisso. Cioè quelli che, in maggioranza, hanno votato la Brexit.
Il ministero del Tesoro di Londra ha quantificato in 66 miliardi di sterline il costo dell'addio, nell'ipotesi hard, quella sostenuta dal nuovo primo ministro Theresa May, ossia l'uscita dalla Ue senza accesso al mercato unico. La stima si riferisce alla riduzione di entrate fiscali che Downing Street ipotizza pari al 65% del budget annuale della previdenza sanitaria del Paese. Quindi, o si aumenteranno le tasse, o si taglieranno sanità e previdenza.
Benché il crollo della sterlina abbia favorito il turismo all'ombra di Buckingham Palace, gli inglesi hanno già dovuto rinunciare alle vacanze all'estero, divenute proibitive per molti portafogli. Ma soprattutto sono stati costretti a fare i conti con l'aumento dei prezzi, non solo per le merci d'importazione, ma anche per quelle prodotte da imprese britanniche, che si trovano le materie prime acquistate all'estero rincarate in quattro mesi del 20%, scaricando sui consumatori del Regno Unito il relativo costo.
Ma il conto che Londra dovrà pagare (cioè le tasche dei sudditi di Sua Maestà) sarà ben più salato non appena andranno al dunque le trattative con l'Europa per l'uscita effettiva. Theresa May dice di aver fretta con la hard Brexit, così da accontentare quegli elettori che non volevano più il libero scambio di persone tra Inghilterra e resto d'Europa. Questo però comporta versare a Bruxelles immediatamente all'uscita 20 miliardi di euro (fonte Financial Times) per saldare la quota pregressa di passività e obblighi finanziari contratti per progetti infrastrutturali europei, oltre a 5 miliardi di sterline l'anno come contributo all'Ue per ottenere un accesso al mercato unico europeo, da cui altrimenti - ovviamente - verrebbe bandita.
Se infatti fosse il resto d'Europa questa volta a votare No, come hanno fatto gli inglesi a giugno, si stima che Londra perderà il 20% del business della finanza (va ricordato che gli affari della City costituiscono un quarto dell'economia britannica, cioè il 25% del pil), perché perderà il diritto di vendere i propri servizi agli altri paesi europei senza dazi. Un pericolo concreto la fuga delle società, vista la corsa di questi mesi a trasferire sedi e personale da Londra a Parigi, Vienna o Dublino.
Intanto, grazie alla Brexit, per la prima volta in sette anni il Regno Unito non è più tra i cinque Paesi più attraenti per gli investimenti esteri (fonte Ernst&Young), e l'illusione della signora May di ottenere una Brexit «à la carte» per poter lucrare i vantaggi dell'Unione europea senza condividerne i doveri, si scontra con un principio cardine su cui si fonda l'Europa unita: l'accesso al mercato unico si ha solo se si condividono anche libertà di immigrazione dai paesi Ue e contribuzione regolare al budget dell'Unione (modello Norvegia).
Con i salari fermi e il rallentamento della crescita stimata nel Regno Unito per la caduta degli investimenti esteri, gli analisti (fonte Resolution Foundation) prevedono per il 2017 una marcata caduta dei salari in termini reali che andrà a incidere soprattutto sui ceti medio-bassi, già colpiti dalla contrazione del pil britannico che negli ultimi 15 anni è sceso del 9,5%. Gli stessi ceti che, per protestare contro la crisi e l'aumento delle diseguaglianze sociali, avevano votato convinti per la Brexit, e ora si trovano a pagare salata la loro scelta. Del resto, che il voto sia stato in buona parte un'ondata emotiva di protesta senza sapere bene su cosa si votava e sulle conseguenze economiche e politiche del referendum, è dimostrato dal boom di richiesta informativa su cosa era la Brexit nei giorni successivi alla Brexit. In sostanza gli elettori si sono informati su cosa andavano a votare il giorno dopo aver votato e non il giorno prima.
In un mondo globale e intrecciato come è ormai il nostro, specie in Europa, non esistono più decisioni nazionali che non siano intrecciate con conseguenze europee o mondiali. Questo spiega l'attenzione con cui l'Europa e il mondo ha guardato al voto sulla Brexit, la stessa attenzione che ora il mondo ha sull'Italia per il prossimo referendum del 4 dicembre. Solo Massimo D'Alema, con una saccenza rancorosa quanto provincialotta, può affermare rivolto al resto del mondo: «Che si facciano gli affari loro», giudizio sorprendente per ignoranza e malafede se espresso da un ex presidente del Consiglio ed ex ministro degli Esteri.
Perché in realtà, interessandosi dell'Italia e di quanto avviene da noi anche con il referendum, si preoccupano delle conseguenze in un verso o nell'altro che il voto avrà sull'euro, sullo spread, sull'economia europea, oltre che sulla stabilità europea. Anche perché, chi vuole investire in Italia, vuol sapere se il sistema regge o è destinato a implodere, se vi sarà un governo dopo il 4 dicembre o il vuoto politico, se continueranno le riforme o verranno interrotte. In realtà dovrebbero essere gli italiani i primi a porsi queste domande per se stessi. Per lo meno per evitare di fare la fine di quegli elettori britannici che hanno votato Brexit, senza sapere e valutare attentamente gli effetti economici e finanziari che ciò avrebbe determinato sui loro stipendi e sul loro futuro.
p.giovanetti@ladige.it
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