Caporetto e i generali inetti
Caporetto e i generali inetti
Gli storici inglesi che, forse, meglio di altri hanno narrato la Grande Guerra, definirono Luigi Cadorna, il supremo comandante del Regio Esercito, “un autocrate, un prepotente”, l’uomo che impose ad un popolo di contadini – e molti di loro erano analfabeti – una disciplina ferrea, quell’ “obbedire e combattere”, massima poi raccolta da Mussolini che ci aggiunse il fascistissimo “credere”.
Ma sulle fucilazioni di soldati italiani si è esagerato anche se, mentre l’Italia preparava la guerra all’Austria, Cadorna aveva ordinato di “fare immediata giustizia dei pavidi”, cioè di quanti avrebbero esitato ad andare all’assalto. Ci furono senza dubbio uccisioni sommarie di disertori, ammutinati, di militari che abbandonati senza ordini, munizioni e cibo si erano semplicemente allontanati dalle loro postazioni, ma non più che negli altri eserciti alleati.
Dietro Caporetto, una tragedia uguale a quella che colpì l’Italia l’8 Settembre del 1943, c’era soprattutto l’impreparazione dei generali. Avevano studiato “l’arte” della guerra sui libri che raccontavano quelle napoleoniche, ma non avevano capito gli sviluppi dettati da quella combattuta da masse di uomini sostenuti dagli enormi progressi dell’industria. Il Regio Esercito era obbligato a combattere per il binomio Trento-Trieste; gli inglesi e i tedeschi combattevano per distruggere il potenziale bellico del nemico.
C’è un esempio francamente poco noto: alla fine dell’ottobre del 1918 alcuni ufficiali inglesi entrarono in Trento con qualche giorno di anticipo sui Cavalleggeri: non avevano alcun interesse a conquistare una città bensì ad occupare a Pergine il grande aeroporto del Cirè divenuto strategico in una guerra che si vinceva uccidendo il nemico, soprattutto distruggendo i suoi armamenti. Successe anche nel 1940 quando l’Italia fascista schierò in un’altra guerra imperialista, i decantati “otto milioni di baionette”, ma pochi e obsoleti carri armati chiamati “scatolette di sardine”, aerei antiquati, nessuna nave portaerei a presidiare un’Italia circondata dal mare per impantanarsi sui monti della Grecia in una guerra identica a quella combattuta sul Carso.
Fino a Caporetto – anche questo lo scrissero gli storici inglesi – “le truppe italiane non avevano mai avuto l’occasione di battersi in campo aperto e le avanguardie tedesche, bene addestrate alla guerra di movimento, non ebbero difficoltà a cogliere di sorpresa soldati fortemente impressionati dalla rapida avanzata del nemico e demoralizzati dall’assenza della loro artiglieria”.
A partire dal 1916 c’erano stati, fra gli ufficiali italiani, alcuni tentativi per trasformare quella di trincea in guerra di movimento e una idea, certamente di rilievo, era stata proposta da Gabriele d’Annunzio “il corsaro celeste terrestre e marino” a Cadorna in una lettera datata 11 maggio 1917, intitolata “Dell’uso delle squadriglie da bombardamento nelle prossime operazioni”. Suggeriva di bombardare le officine di Essen “dove si prepara con intensità ininterrotta la più gran somma di armi e di munizioni, con cento velivoli… e con un gruppo di cinquanta aerei intraprendere l’assedio aereo del Trentino, troncando i nervi dell’offensiva austriaca, interrompendo spostamenti e rifornimenti fra Bolzano e Brixen dove la ferrovia la strada e il fiume la montagna si legano… varrebbero a tagliare il passaggio ruinando le opere, movendo frane nell’alpe, scavando enormi imbuti”. Anche Cesare Battisti aveva proposto un bombardamento, ma mentre “il poeta armato” indicava come bersaglio una zona disabitata, il deputato trentino aveva ottenuto un bombardamento, sia pure dimostrativo con un dirigibile, della stazione ferroviaria di Calliano e di quella, a Trento, di piazza Dante. Cadorna non rispose a d’Annunzio; non ci furono i bombardamenti aerei e nel giorno di Caporetto, neppure quelli delle artiglierie, come si legge nella “History of the Great War”.
L’impiego dei cannoni era affidato a Pietro Badoglio che non diede mai l’ordine di aprire il fuoco sulle truppe austro tedesche che avanzavano; addirittura scomparve dalla scena della battaglia. Oggi sappiamo che il generale aveva avocato a sé l’ordine di aprire il fuoco; sentiva che la battaglia, se vittoriosa, poteva portargli altre glorie, altre promozioni ma i colpi mirati dell’artiglieria austro germanica avevano distrutto tutti i centri telefonici e così i settecento cannoni di Badoglio rimasero in silenzio, anzi vennero catturati dalle truppe dilaganti nelle retrovie del Regio Esercito. Da tempo conosciamo che al comando supremo si cercava di fare carriera.
Da tempo sappiamo che Badoglio ripiegò con alcuni ufficiali; di tanto in tanto, il convoglio di automobili si fermava per cercare di mettersi in contatto, via radio, col quartiere generale di Udine ormai deserto, ma subito veniva bersagliata da colpi di artiglieria: a guerra finita si apprese che i segnali di quella radio da campo venivano intercettati dai tedeschi. Su Caporetto ci fu la solita inchiesta: le pagine riferite a Badoglio vennero stralciate, forse distrutte e nessuno ha spiegato il perché di quella scelta. Di certo, vennero nascoste agli italiani e alla storia. E’ documento che nei giorni successivi al disastro militare, Badoglio temeva di venire arrestato e processato: ai suoi aiutanti confessava di temere da un momento all’altro, l’arrivo alla sede del suo comando di un colonnello dei Reali Carabinieri incaricato di trasferirlo in una prigione militare.
Bastò un giorno di attacco e le porte d’Italia si aprirono davanti all’invasore. Si dovette cedere agli austriaci tutta la Carnia, Udine, il Carso intriso del sangue di centinaia di migliaia di uomini. A Roma, sotto l’ondata delle prime notizie, cade il governo Boselli, la disperazione serpeggiò in ogni città, in ogni paese, perché quasi ogni famiglia aveva un congiunto al fronte travolto dal nemico. Tutti avevano compreso che, nonostante i proclami dei socialisti, dei neutralisti, di Papa Benedetto XV, l’inverno ormai imminente si sarebbe ancora, per il terzo anno consecutivo, trascorso in trincea e, per i civili, donne, vecchi, bambini, malati, mutilati, feriti, ci sarebbero stati altri mesi di fame, di freddo, d’angoscia. Logorati i soldati, sempre più insofferenti le masse che tendevano l’orecchio – sia pure poco comprendendo – alle frammentarie notizie dalla Russia dove un movimento, chiamato “bolscevichismo” prometteva la pace immediata, la terra ai contadini, un lavoro ben pagato nelle fabbriche, un’attenzione alle donne. Ma fra gli uomini della politica nessuno se la sentiva di assumersi la responsabilità di portare l’Italia fuori dal conflitto né ci fu una forza organizzata, capace di guidare i soldati, che gettate le armi lasciavano le maledette trincee, verso una rivolta al militarismo, come era accaduto in Russia.
Fra l’enorme massa di fuggiaschi si gridò Viva il Papa, Viva il socialismo e man mano che la truppa si allontanava dalla linea dei combattimenti cessavano i vincoli della disciplina, c’era chi gettava il fucile subito imitato dai commilitoni che non potevano intuire come a Ponte di Priula li attendevano i Reali Carabinieri per fucilare i disarmati trattati alla stregua di disertori. Spesso la repressione raggiunse punte di vera e propria ferocia; a Noventa, il generale Andrea Graziani, assistendo il 3 novembre al passaggio di un reparto in ritirata, vide un soldato con la pipa in bocca che lo guardava con aria di sfida. Graziani lo bastonò poi ordinò ai Carabinieri della sua scorta di fucilarlo. C’era chi entrava nelle case e si vestiva da borghese frammischiandosi alle masse dei profughi, chi si dava al saccheggio e chi infine, pensando che la guerra fosse davvero finita, convinto che quella marcia si sarebbe conclusa con l’arrivare alle amate case, ebbe la certezza che non si sarebbe più tornati in trincea. Nella massa degli sbandati, al di là delle grida, non serpeggiò una ribellione. Spesso bastava un ufficiale energico e carismatico perché le armi non fossero abbandonate e il reparto mantenesse disciplina e attitudine al combattimento.
Intanto le truppe austro germaniche, sorprese dall’enormità dello sfondamento, senza riserve di truppe fresche, senza veicoli per l’inseguimento, i necessari ponti da lanciare prima sul Tagliamento, poi sul Piave contavano il bottino: cinque milioni di scatolette di carne, settecento mila di salmone, tonnellate di gallette, riso, pasta, cinquemila ettolitri di vino, trecentomila paia di scarponi e via elencando il vestiario, i veicoli, i mille cannoni, i centomila prigionieri rendendosi conto che potevano occupare Venezia, Padova, Vicenza, Verona e arrivare a Brescia. L’Italia era al “si salvi chi può”, come avvenne l’8 Settembre del 1943.
Come era successo alla vigilia dell’attacco austriaco scatenato sull’ Altipiano dei Sette Comuni passato alla storia come Strafexpedition, gli italiani erano stati informati che si stava preparando qualche cosa di importante, dai disertori che nel loro odio verso l’Impero asburgico, erano prodighi di informazioni precise, dettagliate sia sulla natura dell’attacco imminente che sulle sue direttrici. Né, avvertito che l’attacco sarebbe stato preceduto dall’impiego di armi chimiche, Cadorna si occupò delle maschere antigas salvo diramare una circolare nella quale si legge: “Ai soldati si dica e si ripeta tutti i giorni che la nostra maschera è la migliore in uso in tutti gli eserciti”. Una colossale fandonia che costò la vita a migliaia di uomini dislocati nella prima linea, fulminati dal “gas azzurro” e il nostro Comando supremo sarà costretto ad acquistare due milioni di respiratori di fabbricazione inglese. Ecco perché all’alba di quel 24 ottobre, il giorno più lungo della nostra prima guerra mondiale, le prime linee italiane rimasero silenziose: i soldati erano ai loro posti, ma morti, il gas li aveva fulminati con il fucile in mano, la maschera antigas sul volto, quella maschera che nonostante i proclami, era la peggiore fra quelle in uso in tutti gli eserciti. Saranno ancora gli storici inglesi a ricostruire come Cadorna venne destituito per decisione di Vittorio Emanuele III. Nella conferenza di Rapallo convocata per decidere come gli alleati avrebbero dovuto aiutare l’Italia, il premier Lloyd George, che era sempre accompagnato da una graziosa segretaria, volle la destituzione di Cadorna e l’accordo fra inglesi e francesi fu unanime: il presidente del Consiglio italiano Orlando, che aveva preso il posto di Boselli, non fece nemmeno un tentativo di resistenza. Scaricò Cadorna. Era l’8 novembre di 100 anni fa.