Sacchetti bio a pagamento: ecco cosa non va

Sacchetti bio a pagamento: ecco cosa non va

di Renzo Moser

Poche cose, negli ultimi tempi, hanno fatto arrabbiare i lettori/commentatori dell’Adige come la novità dei sacchetti a pagamento (ma biodegradibili!) necessari (sì, necessari!) per comprare frutta e verdura nei supermercati.

Lo dimostrano, tra le altre cose, clic e commenti ai post che abbiamo dedicato all’argomento (e da oggi anche un sondaggio).

Terreno minatissimo, dunque, sul quale vale però la pena avventurarsi, mi pare, per un paio di osservazioni.

1. Sorprende la ritrovata, quando non inedita, vena ecologista di moltissimi consumatori trentini. Fino a due giorni fa erano in pochi a preoccuparsi del danno ambientale dovuto all’uso smodato di sacchetti di plastica. Da quando si pagano, qualcosa è cambiato. Evviva.

2. Dunque, ne consegue che le nuove regole e l’introduzione del «balzello», a qualcosa servono. Un primo risultato, cioè, lo hanno ottenuto: risvegliare la coscienza ambientale di chi l’aveva smarrita o non ce l’aveva mai avuta.

3. È una vecchia lezione, che però facciamo fatica a ricordare: i comportamenti virtuosi, non si impongono da soli o per buona volontà. Si radicano nel vivere quotidiano quando chi sgarra va incontro a una sanzione, che sia pecuniaria, morale o di altro tipo. Nessuno voleva mettersi le cinture in auto o il casco della moto, qualche anno fa; nessuno accettava di non fumare nei ristorante, sui treni o al cinema e in pochi si moderavano nel consumo di alcol prima di mettersi alla guida; non tutti sarebbero disposti a differenziare tutto, se potessero farne a meno senza incorrere in sanzioni o senza la prospettiva di dover pagare. Quando sgarrare diventa un lusso che costa caro, tutti noi ne facciamo molto volentieri a meno.
Insomma: far pagare i sacchetti che inquinano è cosa buona è giusta.

4. Ma... Imposizioni e minaccia di sanzioni funzionano se il loro scopo è quello di sostituire un comportamento cattivo con un comportamento virtuoso. Se viene a mancare questo fine, salta tutto. E nel caso dei sacchetti, succede proprio questo. Per diverse ragioni.

5. La prima riguarda i cosiddetti «shopper bio». Dalla plastica (il male) al biodegradabile (il bene): che problema c’è? Chi potrebbe contestare una misura del genere? Lo potrebbe fare, tanto per fare un esempio, chi, nell’ottica della salvaguardia dell’ambiente (a proposito, ma le etichette col prezzo sono bio anche quelle?), non guarda solo al problema dello smaltimento (che forse non è il primo dei problemi) ma all’intera filiera. Prima di essere smaltiti, i sacchettini biodegradabili vanno prodotti. Non voglio dilungarmi su quanta energia venga utilizzata per farlo, o sulla reale sostenibilità ambientale delle bioplastiche prodotte con amido di mais (mais! per chi fosse interessato, qualche pagina del Dilemma dell’onnivoro, di Michael Pollan potrebbe essere illuminante). Il prefisso «bio» non risolve automaticamente tutti i problemi. Semplicemente, la migliore via a uno smaltimento sostenibile è ridurre le cosa da smaltire. Semplice. Forse troppo.

6. E qui arriviamo al punto. In tutta questa vicenda, quello che salta agli occhi, e che moltissimi lettori hanno giustamente sottolineato, è che non viene data un’alternativa. In sostanza, se io voglio portarmi un sacchetto, magari di carta o di stoffa, da casa e usarlo (più volte) in negozio, non posso farlo (motivi igienici, ha fatto sapere il ministero, e i supermercati, in ogni caso, si sono opposti). Ecco, questa è la grande ingiustizia e il grande errore che, se non corretta, fa cadere il palco. Sarebbe molto più equo ed efficace far pagare una enormità i sacchetti, bio o non bio (1 euro l’uno?) per spingere i consumatori a farne a meno per utilizzare delle alternative veramente ecologiche, eliminando alla radice il problema ambientale. Costringere i consumatori a usare i sacchetti è una misura iniqua e inefficace. E stupida, anche se europea.

Ps. Qualche scappatoia c'è, come quelle suggerite sui social:

 

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