Una come Una per i diritti di tutti
Nessun uomo, nessuna donna è un'isola. Prendersi cura di qualcun altro, dei più fragili, è un istinto della specie. Può diventare un mestiere. Per qualcuno, diventa una strada, una vocazione.
C'è chi sente di dover fare qualcosa per il mondo. Nessuno è un'isola e qualcuno trova un'isola a cui dedicarsi.
Una McCauley era la prima responsabile donna delle Nazioni Unite in una delle isole più belle, povere e tragiche del mondo, lo Sri Lanka (ex Ceylon), 21 milioni di abitanti a sudest dell'India. Se ne è andata venerdì scorso, a 54 anni, ancora con un sacco di programmi in testa, nella capitale Colombo, dove comandava la squadra Onu: e laggiù, domani, sarà cremata tra le lacrime di chi lavorava con lei e la stimava. Lei, che per origine familiare veniva da un'altra isola: l'Irlanda.
Nella terra dello tsunami e di una lunghissima guerra civile con le tigri Tamil, Una McCauley si occupava di sviluppo, di parità, di diritti umani.
Aveva cominciato a occuparsi dei bambini, dei figli degli altri, poco più che ventenne. In Messico aveva conosciuto degli ex ragazzi di strada, e questo le aveva cambiato le prospettive. Prima pensava di impegnarsi nel lavoro sociale in Inghilterra, dove abitava, ma dopo la laurea alla Soas, la Scuola di studi orientali e africani di Londra, aveva capito di aver bisogno di orizzonti più larghi. Ecco allora la Liberia di una crudele guerra civile (dove adotta due fratelli abbandonati) ecco Panama, il Togo, il Sudan, il Kenya, l'Angola e lo Sri Lanka, sei anni fa.
In queste settimane in cui gli «internazionali» delle ong sono al centro di tristi scandali e di stupefacenti stupori (i giornali scoprono che anche tra i presunti buoni c'è sempre qualche cattivo) è giusto ricordare una donna che, prima a «Save The Children», poi all'Unicef, poi alle Nazioni Unite, ha interpretato il suo lavoro con passione civile e con empatia, riconosciuta sia dal presidente cingalese sia dal capo dell'opposizione.
L'empatia è l'atteggiamento che un grande inviato come Kapuscinski suggeriva ai giornalisti «internazionali»: vi hanno insegnato a essere freddi, scafati, insensibili; ebbene io vi dico che il cinico non è adatto a questo mestiere, che se non siete delle buone persone non sarete buoni cronisti, se non riuscirete ad «entrare» almeno qualche ora nelle vite degli altri, non sarete in grado di raccontarle davvero.
Una McCauley ci è entrata, nelle vite degli altri. Competente e appassionata, intelligente e ironica, sempre attenta e impegnata per le buone cause.
Basta leggere i suoi ultimi tweet: l'ultimissimo, una settimana prima di morire, dedicato all'ambiente («Sarà un anno critico per il clima, tra Parigi 2015 e l'agenda 2020: il mondo è a un bivio»); il pensiero di San Valentino («Dite ai figli dei rifugiati che non li avete dimenticati»); l'appello «votate donna e basta violenze»; l'allarme sui danni alla salute dall'abuso di antibiotici; l'impegno per lo stop alle mutilazioni femminili; il sostegno al dialogo interreligioso, una «settimana dell'armonia» per mettere basi solide alla pace.
Ma soprattutto l'urgenza di un impegno personale. Commentando il suicidio di una ragazza quattordicenne violentata da tre giovani, Una scriveva: «Uno dei peggiori crimini che si trasforma in una delle peggiori tragedie. Senza parole... Io raddoppierò il mio sforzo per #ENDviolence».
Raddoppiare l'impegno. E l'altra parola chiave: oggi, ora, subito. Il suo tweet del 25 gennaio: «Razzismo, xenofobia e intolleranza sono problemi prevalenti in tutte le società. Ma ogni giorno, ciascuno di noi può schierarsi contro il pregiudizio razziale e gli atteggiamenti intolleranti. Diventa un campione dei diritti umani. Schiérati per i diritti di qualcuno. Oggi».
Non le sfuggivano mai, nelle storie personali drammatiche che incontrava, il quadro generale, i problemi strutturali. L'aveva imparato in Messico, venticinque anni fa: «I bambini non sono solo le vittime di disastri familiari ma piuttosto di anni di politiche economiche errate, le più recenti imposte dalla Banca Mondiale». E riportava le parole di uno di loro, Alberto: «La mia mamma ci ha lasciati, vivevamo a Puerto Escondido... poi mio padre mi ha portato a Città del Messico, mi picchiava molto perché non andavo bene a scuola... Vivo in strada a Città del Messico da un anno e mezzo. Ho preso un taglio in testa durante una rissa, stavo male ma ora sono ok. Non so se rimarrò qui (a Casa Alianza). Qui è bello, ma i bambini sono noiosi e sdolcinati... Cosa voglio nella vita?... Ah... qualcuno con cui vivere e un piccolo registratore. Tutto qui».
Tutto qui.
Una McCauley non era un'isola ma attraversava le isole degli altri.
Una bella foto familiare la ritrae con sua madre e i suoi due figli liberiani: due donne bianche e due ragazzoni neri. Tutti sorridenti, una famiglia del terzo millennio, colorata. Il mondo che lei ha cercato di costruire, in prima linea per migliorare la vita degli altri.
Una non era una qualunque. Una così, la si ricorderà.