Il sequestro Moro/1
Il sequestro Moro/1
Era il 16 marzo del 1978, dunque 42 anni fa, di mattina. Il vento sollevava turbini di aghi ghiacciati che pungevano il viso. Inutile continuare a spingere gli sci: non facevano più presa nelle canalette della pista da fondo alle Viote, sul Monte Bondone, la bellissima montagna che domina Trento. Meglio fermarsi in quella grande tenda rizzata dagli Alpini in un avvallamento per bere una tazza di caffè corretto da una robusta dose di grappa, offerta da un ufficiale conosciuto poco prima mentre ritoccava la sciolina. La tenda era spaziosa, illuminata e calda e piena. Ma tutti erano in silenzio, raggruppati attorno ad una radio da campo. La trasmissione era molto disturbata; la voce che si intuiva affannata, andava e veniva come se fosse ora portata ora smorzata dal vento. Ma ad un tratto si capì benissimo il messaggio più volte ripetuto: “Il presidente è stato rapito… Moro Aldo…, sì Moro, proprio lui, il presidente… gli agenti della scorta uccisi, uno è ferito… conflitto a fuoco… a Roma, non a Fano. A Roma in via Fani”.
Gli uomini intabarrati nei giacconi imbottiti restano lì, attorno alla radio che gracchia. I minuti passano, il cielo si fa più cupo, il vento soffia sempre più forte, attorno a quello accaduto via Fani non arrivava niente se non la notizia, più volte ripetuta, che quattro uomini dello Stato erano stati assassinati, un quinto gravemente ferito e il presidente del Consiglio Nazionale della Democrazia Cristiana “prelevato”, portato via dalla sua auto e comunque prigioniero. E questo era accaduto a Roma, nel centro della Capitale, in pieno giorno, in una zona spesso paralizzata dal traffico. Qualcuno dice ad alta voce: “Sono state le Brigate Rosse”. E si avvertì un brivido. Perché da tempo le Br erano una realtà sanguinaria, con il sequestro di personaggi importanti, l’uccisione, se c’erano, degli uomini delle scorte che per colpa dello Stato che non li aveva addestrati, erano totalmente impreparati a difendere e difendersi. Da qualche parte sbucò una radio a transistor e alle 9,25 si ascoltò il primo annuncio della strage diffuso da Radio 2, il giornale diretto da Gustavo Selva. La voce dell’annunciatore era chiara, forte, tagliente: “Interrompiamo la trasmissione per una notizia drammatica. Il presidente della Democrazia Cristiana l’onorevole Aldo Moro, è stato rapito poco fa a Roma da un commando di terroristi”. Una breve pausa poi “i terroristi avrebbero sparato contro la scorta. Avrebbero poi caricato a viva forza l’onorevole Moro” e nella concitazione della trasmissione, l’annunciatore non dice “su un’auto”. Ancora un attimo e la tragica conferma: “La scorta dell’onorevole Moro era composta da cinque uomini: sarebbero tutti morti”. C’ è incredulità, ma lo stupore non è ancora rabbia. La radio a transistor è sempre accesa ed ecco un altro frammento di notiziario: “…non si ha notizia dell’onorevole Moro… è uno spettacolo pietoso. In questo momento stanno portando dei lenzuoli bianchi per coprire le salme”. E si provò un senso di vertigine. Per quegli uomini trucidati nel cuore della Capitale, per l’uomo rapito, subito rammentando che Moro era di casa nel Trentino, in val di Fiemme dove tornava quando, fra gli impegni di partito e di governo, riusciva a ritagliarsi uno spazio di vacanza.
Ancora qualche minuto e alle 10,08 alla sede dell’Ansa di Milano arriva la telefonata attesa e temuta: “Qui le Brigate Rosse. Questa mattina la nostra organizzazione ha portato l’attacco al cuore dello Stato”. Due minuti dopo viene dettato alla redazione centrale dell’Ansa di Roma il secondo comunicato: “Questa mattina abbiamo sequestrato il presidente della Dc Moro ed eliminato la sua guardia del corpo, le teste di cuoio di Cossiga. Brigate Rosse”. Ancora tre minuti e alla sede Ansa di Torino arriva una brevissima telefonata: “Qui le Brigate Rosse, abbiamo rapito noi il servo dello Stato Aldo Moro”. Tre telefonate in cinque minuti a Milano, Roma, Torino a dimostrare la diffusione sul territorio dei nuclei brigatisti, l’efficacia della loro organizzazione, l’impotenza dello Stato.
Quanti 42 anni fa avevano l’età della ragione rammentano con chiarezza cosa stessero facendo e con chi fossero e così riemergono quei sentimenti di incredulità, di angoscia, di paura, di attesa per qualcosa che da un momento all’altro sarebbe potuto accadere.
Ecco a Trento la sede della Dc, al secondo piano di un edificio di via San Francesco, un appartamento molto grande con la gigantografia di Alcide Degasperi e la frase autografa, quel “Fate il vostro dovere ad ogni costo”, una nobile esortazione in verità più volte tradita, accanto all’immagine di don Luigi Sturzo con quel naso esageratamente lungo, si riempì in fretta. C’era un silenzio irreale in quelle stanze cariche di fumo di sigarette consumate troppo in fretta dove uno dopo l’altro, arrivavano tutti gli uomini della Dc. La notizia ascoltata per caso alla radio, era stata urlata da Carlo Franceschi e da Corrà, il funzionario tutto fare del partito. In meno di mezz’ora i corridoi, le salette si riempiono di gente non solo democristiana. Seduto ad una scrivania Ermanno Holler, il segretario provinciale della Dc trentina, tenta di chiamare a Roma, in Piazza del Gesù, la sede dello Scudo Crociato. Ma i telefoni sono, ovviamente, occupati. Allora Holler incontra il Commissario del Governo Augusto Bianco. Assieme fanno la cosa più ovvia: si recano negli uffici della questura che all’epoca si aprivano in piazza Mostra, per apprendere dal questore che non c’ era verso di mettersi in contatto con la Capitale. Cresce la tensione quando un cronista corso a palazzo di giustizia, torna nella sede del partito per dire che neppure il capo della Procura della Repubblica Francesco Simeoni è riuscito a parlare con Roma, ad avere qualche informazione perché anche la cittadella giudiziaria e il mastodontico edificio della Suprema Corte di Cassazione sono irraggiungibili dai telefoni, dalle telescriventi, dalle ricetrasmittenti.
In via Verdi, alla facoltà di sociologia, la notizia è stata appresa dalla radio transistor accesa nella guardiola degli uscieri e immediatamente comunicata al direttore amministrativo Tarcisio Andreolli. Gli studenti si riuniscono, c’è un dibattito, qualcuno dice: “Adesso le Br devono conquistare il Palazzo d’Inverno” e si capisce che l’assalto in via Fani è così enorme e tragico da essere il culmine della lotta armata. “E’ la sconfitta delle Bierre” aveva scandito nella sede del Msi di via Belenzani dove si erano radunati i camerati, il consigliere regionale e federale di Trento, Renè Prevè Ceccon.
Pioviggina, fa freddo, ma in Piazza Duomo si forma un corteo di donne e uomini della sinistra mentre gli operai della Michelin lasciano la fabbrica di via Lungo Adige Sanseverino per andare a presidiare le sedi del Pci e a Palazzo di Giustizia il Procuratore Generale Mario Amorosi dichiara: “Viviamo in un clima di guerra subdola e vile… non possiamo credere che la nostra Italia sia divenuta terra di assassini e covo di rivoluzionari”. Intanto a Palazzo Thun si era riunito il Consiglio Comunale e il sindaco Giorgio Tononi con il capogruppo del Psi Walter Micheli avevano usato il termine “resistere” aggiungendo che “il terrorismo va combattuto superando i ritardi e le insufficienze del nostro sistema”. Tutti i rappresentanti dei partiti riuniti in Municipio avevano detto, coralmente, un no a leggi eccezionali che a Roma venivano invocate da molti parlamentari, con il capogruppo della Dc Paolo Cavagnoli, ad affermare che “la risposta alla paura deve essere democratica. Lasciarsi prendere dallo sgomento è fare il gioco del terrorismo: alla violenza non si risponde con la violenza ma con il rafforzamento delle istituzioni repubblicane”. Da Ettore Bonazza del Pci, altra figura eminente di quell’epoca, un “no alle reazioni isteriche e un no alla paura che ci fa mettere in una situazione di coprifuoco e impedisce il civile confronto e il dibattito politico”. Con un appello: “Bisogna lavorare assieme per un socialismo costruito nella democrazia e nella libertà perché nessuno debba avere paura”.
Proprio la paura domina quelle ore di incertezza e la data di giovedì 16 marzo resta nella memoria come una giornata di sgomento per il Trentino. Bruno Kessler, il politico che a Trento guidava la corrente “Autonomia e Partecipazione” collegata a Moro, aveva appreso la notizia dell’agguato a Bolzano, nella sede del consiglio regionale, durante le celebrazioni del trentennale dell’Autonomia dove rappresentava il Presidente della Camera dei Deputati Pietro Ingrao. Al giornalista Mauro Lando aveva detto: “Si è voluto colpire quello che Moro rappresenta per il Paese e per le istituzioni democratiche e lo sforzo straordinario che i democratici stanno facendo per affrontare una situazione storica che proprio oggi stava acquistando significato e valore”. A Trento, Giorgio Grigolli, già direttore del giornale L’Adige, aveva convocato la giunta provinciale invitando tutti i sindaci del Trentino ad essere presenti con le insegne dei loro comuni alla manifestazione che si andava preparando in città “per dimostrare la fierezza democratica delle popolazioni del nostro territorio”. Dal palazzo della Curia, l’arcivescovo Alessandro Maria Gottardi aveva concluso il suo messaggio di dolore con quel “Dio custodisca l’Italia nel nome di Cristo” che resta nella memoria di quanti vissero quella giornata di angoscia. Il giornale Alto Adige aveva raccolto anche la nota di Marco Boato, all’epoca leader di Lotta Continua e dei Cristiani per il socialismo. “Il dissenso è totale non soltanto per la strage commessa, perché purtroppo in Italia viene tragicamente raccolto il risultato di dieci anni di terrorismo lasciato sostanzialmente impunito proprio perché legato a profonde complicità nei corpi armati e nei servizi segreti dello Stato”. E aveva aggiunto: “Le Brigate Rosse hanno da tempo imboccato il vicolo cieco della impotenza e della disperazione avventurista”.
E resta nella memoria la gente di Trento che affollava i supermercati per fare incetta di cibo, i tabaccai per comperare sigarette e batterie per le radio transistor e le farmacie per far scorta di medicine. A mezzogiorno la farmacia de Battaglia in Piazza Pasi rimase senza insulina.
(Continua )