Autocertificazione firmata da Kafka
Autocertificazione firmata da Kafka
Abbiamo imparato a barrare le voci che non interessano. Ci siamo esercitati sull’esegesi delle singole voci. Abbiamo studiato chi sono i congiunti. Mai avremmo immaginato che esistesse un documento più insidioso della dichiarazione dei redditi: l’autocertificazione.
I social lo avevano già capito: da un pezzo gira su Internet la finta copertina di un libro di Kafka. Il titolo, in campo rosso, è «L’autocertificazione». Se Kafka fosse vivo, in effetti, potrebbe trarre ispirazione. Tale è l’amore degli italiani per la burocrazia. Il nuovo modulo, fresco di stampa, arriva in coincidenza con la fase 2: appena sotto i «motivi di salute» e lo «stato di necessità», abbiamo a disposizione una serie di righe dove indicare il grado di parentela. Immagino che questo sia un omaggio alla generale difficoltà nel destreggiarsi con le qualifiche del congiunto: alzi la mano chi riesce ad azzeccare sempre al primo colpo la distinzione fra nuora e cognata, genero e suocero. Per non parlare dei gradi di cuginanza, un vero ginepraio.
Ma non c’è problema: prima di uscire possiamo usare tutto lo spazio bianco per indicare con esattezza il padre della moglie o la sorella del marito. A questo punto mi sono già confusa, ma non finisce qui: anche i luoghi di lavoro salutano la nuova fase con un modulo nuovo di zecca. L’ordinanza è di pochi giorni fa. Sintomi influenzali e dolori muscolari vanno dichiarati prima di entrare. Provveda inoltre il dipendente a misurarsi la febbre quotidianamente. Dell’aggiornamento dei moduli si sentiva proprio la mancanza, visto che l’ultima versione risale ad un mese fa. Marzo, invece, era stato caratterizzato da particolare solerzia, con ben due modelli arrivati nello spazio di tre giorni (oltre, ovviamente, alle versioni precedenti), tanto per confonderci le idee. A proposito: mi sono appena accorta di aver mantenuto sul computer, pronta per la stampa, la penultima versione del documento, non l’ultima. Con i fogli a crocette non sono mai stata forte, ma mi è andata bene e tiro un sospiro di sollievo. Da adesso - lo prometto - sarò sempre sul pezzo. Anzi, sull’autocertificazione. Divenuto fenomeno di folklore, ben ripiegato nel portafogli accanto alla foto dei figli, il modulo è persino fonte di ispirazione. Sui social girano autocertificazioni illustrate artisticamente: la mia preferita è quella su cui campeggia un buco della serratura con relativo occhio disperato. Rivaleggia, tuttavia, con il pupazzetto della Rabbia nel film Inside Out, che i miei figli per un periodo hanno amato.
Sentendomi parte del movimento generale di amore per i parenti, mi armo di pazienza e cerco di spiegare a Luciano cosa voglia dire «congiunti». Ieri abbiamo visto i nonni, sfruttiamo l’occasione per arricchire lessico e conoscenze. Dunque, amore, chi è la mamma della tua mamma? «La nonna» risponde, per la verità un po’ dubbioso. Benissimo, penso: mio figlio non rientrerà nella maggioranza della popolazione che si confonde sui gradi di consanguineità. Quindi procedo alla prova del nove: amore, e di chi è figlia la tua mamma? A questo punto, però, lui ne ha già abbastanza dell’interrogazione. Mi volta le spalle. Prende l’ultima delle autocertificazioni, si arma di pennarello e disegna il Coronavirus: la fase 2 prevede una nuova versione, con i dentoni minacciosi in bella mostra.