Quando le gente del Ghetto di Roma tentò di linciare Celeste di Porto
Quando il 5 giugno del 1945 Pietro Koch venne fucilato a Forte Bravetta, Celeste Di Porto era rinchiusa nel carcere femminile delle Mantellate in quel di Roma, assieme a Tamara Cerri la giovanissima amante del comandante della squadra speciale di polizia repubblicana, una “banda” di fascisti diventati spietati torturatori. Era già stato fucilato il questore di Roma Pietro Caruso. Poi vennero giustiziati a Roma e Milano altri personaggi di quel raggruppamento, fra i quali Osvaldo Valenti e l’attrice Luisa Ferida che, secondo successive ricostruzioni storiche, era solo innamorata del famoso attore arruolato nella Decima Mas. La “Pantera Nera” che aveva collaborato con i camerati di Koch, accusata “di aver mandato a morte più di cento correligionari”, come scrisse con probabile esagerazione numerica il settimanale “Tempo”, era in attesa di quel processo che poteva concludersi con la condanna a morte.
Nella stessa cella c’era anche Elena Hoehn, ufficiale della Gestapo che aveva fatto catturare i vertici delle formazioni partigiane sorte nella Capitale dopo l’ 8 Settembre del 1943. Anche lei attraversava un momento molto pericoloso anche se la sua identità non era stata ancora scoperta. Certo, era tedesca ma non si sapeva che aveva fatto catturare Ugo De Carolis un ufficiale dei Carabinieri che nel 1921 aveva iniziato la carriera nella caserma dell’Arma di Trento. Nel giorno di quell’ 8 settembre del 1943, l’ufficiale era di stanza a Torino; poco dopo l’armistizio venne trasferito a Roma dove entrò in contatto con il fronte militare clandestino diventando capo di stato maggiore del gruppo di resistenza dell’Arma. Tedeschi e fascisti lo cercavano anche con una taglia di cinquanta mila lire, cifra davvero considerevole per quell’epoca.
Venne catturato il 23 gennaio del 1944 dalla Gestapo nell’abitazione di Elena Hoehn assieme al colonnello Giovanni Frigani e al capitano Raffaele Aversa, i tre ufficiali che avevano partecipato all’arresto di Mussolini il 26 luglio del 1943. Tutti e tre vennero portati in via Tasso, consegnati ad Herbert Kappler, torturati e assassinati il 24 marzo del 1944 alle Ardeatine. Finita la guerra, la Hoehn era riuscita a tener nascosta la sua attività nella Gestapo mentre nel Ghetto di Roma cresceva il numero degli ebrei inferociti con la Di Porto, la “Pantera Nera”. Certo, Tamara Cerri l’amante di Koch era solo un’ adolescente, non era mai entrata in via Tasso dove si faceva scempio degli antifascisti; ma a Forte Bravetta crepitavano i moschetti dei plotoni e di esecuzione; addirittura l’esecuzione di Koch, vista la triste fama del personaggio, era stata documentata con una ripresa filmata. Regista di eccezione Luchino Visconti che Koch aveva arrestato e torturato e poi liberato. Il filmato era stato proiettato nei cinematografi di Roma subito riaperti con l’ arrivo degli alleati e alle Mantellate filtravano notizie sempre più nefaste per le collaboratrici in attesa di giudizio e sugli ebrei assassinati per colpa delle spiate. Davvero cupa quella della morte del padre di Celeste. Si legge sulle pagine di “Tempo”: “Lo spensero a Mauthausen; i testimoni superstiti riferiscono che nessuno è morto più dignitosamente di lui: scheletrico per la fame, camminò rapido verso la bocca del forno”. Un falso, certo, quel gettarsi spontaneamente nelle fiamme. Settimo Di Porto preso dai fascisti, consegnato ai nazisti, morirà nelle camere gas di Auschwitz assieme ad altre centinaia di ebrei italiani vittime delle Leggi sulla Razza volute dl Duce .
Per le prigioniere il pericolo era incombente, bisognava per sfuggire alla condanna a morte creare una nuova identità. Bisognava salvarsi. E fuggire al più presto da Roma. La Hoehn con una falsa identità, forse riuscì dimostrando che quelli della Gestapo aveva combattuto i comunisti e poiché da Berlino a Trieste dove era calata la tragica “cortina di ferro” incombeva l’Armata Rossa, trovò compiacenti quelle persone che temevano di vedere i cosacchi abbeverare i loro cavalli alle famose fontane del Bernini. A Norimberga si era fatta giustizia dei caporioni nazisti; a Dongo sulle sponde del Lario erano stati eliminati, con Mussolini, i “fascistoni” ma da più parti si diceva che bisognava ricreare la Wehrmacht per tenere a bada i “rossi”. La Hohen aveva diverse conoscenze nella città del Vaticano che l’aiutarono; di certo consigliò e protesse l’ebrea del Ghetto che conosceva la sua vera identità e quello che aveva fatto, trovando in padre Evangelisti dei Servi di Maria descritto come “eccellente giocatore di calcio” un ottimo quanto comprensivo alleato.
Il cambiamento nella vita della Di Porto era cominciato il 4 giugno del 1944. Era di domenica, le truppe americane del generale Mark Wayne Clark erano entrate nella Capitale senza incontrare resistenza perché il feldmaresciallo Albert Kesserling, comandante della Wehrmaht in Italia, aveva preferito ritirarsi a nord dove il conflitto sarebbe durato ancora undici mesi. Da ricordare che il Regno d’Italia dopo aver dichiarato guerra alla Francia, all’Inghilterra, alla Grecia e all’Unione Sovietica, cioè a mezzo mondo, si era schierato contro gli Stati Uniti l’11 dicembre del 1941. Con i tedeschi ripiegarono anche i pochi fascisti rimasti nella Capitale; subito si scopre l’orrore delle Fosse Ardeatine e chi cerca i collaborazionisti trova Celeste Di Porto a Napoli, forse in una casa di tolleranza. Nelle pagine del settimanale “Tempo” si legge: “Per la prima volta da quando la stampa si occupa di Celeste si parla di lei come di una creatura umana, non di un mostro… e dopo quaranta giorni è libera perché non esistevano denuncie firmate” e, forse, nell’enorme confusione che deve aver sconvolto la Capitale in quelle giornate di gioia per la liberazione e di furore verso i collaborazionisti, la magistratura attraversava momenti di grande scombussolamento.
I superstiti del Ghetto, nascosti nei quartieri più lontani, uscendo dai loro rifugi cominciarono a radunarsi a Piazza Giudia e venne a galla la tragedia di Lazzaro Articoli, detto Bucefalo, già pugilatore di buona fama. Assalito da quattro fascisti li aveva abbattuti a pugni, ma erano arrivati altri repubblichini. Immobilizzato e portato a San Vittore lascerà la tragica scritta, quel “muoio per colpa di Stella Di Porto, la spia di piazza Giudia” tracciata con la punta di un chiodo sul muro della cella poche ore prima di venire trasferito nel mattatoio delle Ardeatine. Sua moglie, Emma madre di tre bambini, dichiara al giornalista di “Tempo” Carlo Laurenzi: “C’è un tremito nei miei polsi che si calmerà soltanto il giorno in cui potrò strozzare Celeste”, appunto la Stella del Ghetto. Che è di nuovo, arrestata a Napoli in seguito alla denuncia di Elio Polacco il soldato israelita, forse uomo del nascente Mossad, che la scoprì e presenziò all’ interrogatorio.
Dal l’articolo di “Tempo”: “Polacco la tartassò per quattro ore. Tu sei Stella Di Porto le diceva il giovane soldato. Non è vero rispondeva Celeste, mi chiamo Stella Martinelli pescando quel cognome dall’insegna di un negozio ariano vicino al Ghetto. Il funzionario di Polizia che presenziava al confronto, ad un certo punto pronunciò quel dunque, cosa vogliamo fare? Mi senti, ce l’ho con te, Celeste. Lei istintivamente si voltò e l’alibi di Stella Martinelli cadde senza rimedio. Era il 18 aprile del 1945. La trasferirono al carcere delle Mantellate, a Roma, il 6 di maggio. Le campane suonavano a festa, le sirene che per anni avevano annunciato gli allarmi aerei, fischiavano senza posa in segno di gioia, la guerra era finita, cominciava l’epurazione. Ancora dall’articolo di “Tempo”. I superstiti del Ghetto chiesero a Polacco di venire informati sulla data della traduzione della Di Porto da Napoli a Roma; si sarebbero appostati sulla Via Appia, avrebbero bloccato il furgone della Penitenziaria e fatta giustizia sommaria della spia. Ma il trasferimento venne fatto in treno” e così la donna sfuggì al linciaggio. Il 5 marzo del 1947 cominciò il processo alla “banda Antonelli” dal nome del fascista amante della Di Porto. Molti imputati, molte le prove, enorme il clamore perché su alcuni gravavano le accuse di aver consegnato ai tedeschi alcune persone finite alle tragiche Fosse; fra di loro anche quel Mauro Di Mauro, il famoso giornalista di Palermo ucciso nel 1970 dalla mafia. Il processo lo scagionò al di là di ogni ragionevole dubbio. Come si diceva in quell’epoca.
Il dibattimento cominciò il 5 marzo del 1947. Dalla cronaca de “L’Unità” : “La gente del Ghetto gremiva l’aula; urlava senza posa odio e minacce di morte a Celeste… nessuno si curava degli altri imputati. I testimoni si susseguirono ai testimoni e furono quasi sempre donne in gramaglie che maledicevano Pantera Nera causa delle loro disgrazie. Quasi inesistenti i testimoni della difesa. S’ accendevano nell’aula clamori feroci, lo schieramento delle forze dell’ordine era notevole”. Del resto nel processo al questore Caruso, il direttore del carcere di Regina Coeli, riconosciuto da un’esaltata, era stato linciato e il suo corpo sfigurato gettato nel Tevere. Sempre dalla cronaca del processo: alle accuse più infamanti abbassava il capo, Interrogata affermò la sua innocenza e quando più fosca pesava su di lei una condanna senza pietà fu vista piegarsi sulla spalla di una signora elegante che le stava spesso vicino… Tutti erano contro di lei” accusata di aver indicato ai camerati di Koch gli ebrei che incautamente si facevano vedere vicino al Ghetto. C’era solo una donna che la incoraggiava, “la signora misteriosa e un piccolo sacerdote miope che, seduto in un angolo del pretorio, non perse una sillaba del processo”. Quel prete non poteva essere il suo confessore, quel padre Raffaele Evangelisti dei Servi di Maria ritratto nelle fotografie come un uomo alto, aitante, indicato come eccellente giocatore di calcio. La donna era Elena Hoehn, ufficiale della Gestapo. Così misteriosa al punto che la sua identità e quello che aveva fatto, non erano stati scoperti dalle indagini processuali.
Ancora dalle pagine del settimanale “Tempo”: “In ogni modo, né l’enorme copia di testimonianze, né l’oratoria del procuratore generale, né la spinta dell’opinione pubblica commossa (sic!) dai giornali di sinistra, valsero a forzare la mano dei giudici. La sentenza letta il mattino del 4 giugno riconosceva l’imputata colpevole solo in parte, condannandola a dodici anni di reclusione. Il pubblico fischiò il pronunciamento dei giudici, tentò di nuovo di superare gli sbarramenti per assalitore l’imputata. Celeste pallidissima stringeva qualcosa in mano: un fazzolettino scrissero le cronache. In realtà si trattava di un piccolo crocifisso”. Aggiunge l’inviato di “Tempo”. “Siamo giunti nel punto più delicato della nostra storia. La conversione di Celeste”. Era sfuggita al linciaggio, alla condanna a morte, la sentenza era - visto i crimini - mite. E c’era nell’aria l’idea di una amnistia e di quello scontro politico culminato nel voto del 18 aprile del 1948.
(18, continua)