Gli ottant'anni della Portela: la corsa nei rifugi
Chissà quanta gente stava asserragliata nel rifugio che s’apriva in cima a via Grazioli, alla Busa, sotto il convento e la chiesa dei frati. Un ingresso era di fronte al pastificio Tomasi; l’altro verso il ponte che scavalcando la Fersina porta a Mesiano
PRIMA PARTE La strage della Portela
SECONDA PARTE La guerra arriva dal cielo
TERZA PARTE Dopo le bombe l'armistizio
QUARTA PARTE La speranza di pace dura poco
QUINTA PARTE I tedeschi prendono il controllo
SESTA PARTE Un esercito in rotta
SETTIMA PARTE Gli italiani come schiavi
OTTAVA PARTE Una marcia verso il Brennero
NONA PARTE Si gettano le basi dell'autonomia
DECIMA PARTE Il tempo della clandestinità
LA GALLERY Le immagini dopo il bombardamento
Chissà quanta gente stava asserragliata nel rifugio che s’apriva in cima a via Grazioli, alla Busa, sotto il convento e la chiesa dei frati. Un ingresso era di fronte al pastificio Tomasi; l’altro verso il ponte che scavalcando la Fersina porta a Mesiano.
Oppure in piazza Venezia nel budello che s’apre sotto quello che era lo stradone della Valsugana e che, di tanto in tanto, si pensa di riutilizzare trasformandolo in parcheggio. C’erano i rifugi ricavati nelle cantine delle case: travi, assi, parapetti di sacchetti di sabbia come quelli che si usavano nelle trincee della Grande Guerra, un armadietto contrassegnato dalla croce rossa destinato a contenere qualche benda, una bottiglia di alcol, una confezione di cerotti Bertelli, una bottiglia di cordiale. Poi c’erano le maschere antigas.
Tutti avevano imparato ad indossarle e i ragazzetti, insomma i Balilla, erano i più svelti. Erano chiuse in un cilindro di latta con la cartuccia, era di metallo di colore verde scuro, per filtrare e depurare l’aria che s’avvitava alla maschera all’altezza della bocca. Il resto, tranne i tiranti per legarla alla testa e gli occhialini di mica, era di gomma che periodicamente doveva essere strofinata con il borotalco. Il tutto aveva un odore nauseante e così il respiro diventava subito un ansimare, i grandi vetri rotondi all’altezza degli occhi s’appannavano anche se erano stati strofinati - i rimedi artigianali erano molteplici quanto inefficaci - con una fetta di patata cruda o bagnati con acqua e sale o con gocce di orina. Subito la faccia si imperlava di sudore, veniva voglia di vomitare, di strappare quell’orpello dal viso. Ma nelle esercitazioni si era imparato a sopportare il prurito e il puzzo, a restare immobili, a respirare piano, a tenere gli occhi chiusi, ad aspettare.
Sul finire di quell’anno dannato, ma tutti gli anni della guerra furono dannati, si era sempre in allarme e c’erano famiglie intere che tirandosi dietro materassi e coperte, dormivano ogni notte nelle gallerie dei rifugi. Era proibito restare nei rifugi dopo il cessato allarme, ma non c’era verso di sloggiare i sinistrati, quelli che nei bombardamenti avevano perso ogni cosa. Nelle case, o almeno in quasi tutte, le finestre erano coperte con assicelle di legno, carta grossa di colore blu incollata ai vetri con adesivo autarchico: acqua, un pizzico di farina bianca e un po’ di colla da falegname.
Un mascheramento per rispettare le severe norme dell’oscuramento e perché non si trovavano più i vetri spaccati dallo spostamento d’aria. Si dormiva con i vestiti a portata di mano, in attesa dell’urlo della sirena. Scene di miseria, di sofferenze morali e materiali, giorni indescrivibili di paura, di ansia, di depressione.
La stanchezza, la fame, soprattutto la paura, facevano crollare anche i più forti. I soldati tedeschi che entravano nei rifugi erano sempre in gruppo e armati, non scherzano più con le giovani donne, stavano vicino agli ingressi addossati al muro paraschegge e la gente si teneva lontana da loro. Si avevano notizie frammentaria dei bombardamenti degli Alleati su Genova, Milano, Torino; degli aerei da caccia che a volo radente mitragliavano i contadini nei campi, i carretti lungo le strade, persino chi passava in bicicletta. C’erano le storie del ponte dei Vodi quello alla confluenza dell’Avisio con l’Adige, là dove c’è il paese di Lavis con la canzoncina che con quel “mangia e godi e sta lontan dal ponte dei Vodi” a sintetizzare un sogno di felicità. Qualcuno sulla soglia del rifugio si attaccava alla radio “galena”. Qualche cosa si sentiva ma i bollettini erano sempre uguali. Le armate germaniche avevano “sbaragliato” i russi in località a tutti sconosciute e bloccato gli inglesi a Cassino e nei cieli delle città tedesche la contraerea continuava ad abbattere, a centinaia, le fortezze volanti che erano così tante da oscurare il sole. Questo accadeva in Italia.
Sul confine fra la Germania e la Polonia, in quei campi dove c’era bisogno di braccia, prigionieri italiani vengono consegnati a famiglie di contadini nella zona dei laghi Masuri. Mario Gottardi è assegnato ad una che ha avuto il figlio morto a Stalingrado. Finalmente si può lavare, tagliare i capelli, può mangiare. Di notte dorme in una sorta di letto-cassapanca che divide con un altro lavoratore in una stanza riscaldata da una gigantesca stufa di maiolica. Lavora in una fattoria come altri italiani costretti a sgobbare nelle fattorie dei tedeschi. Gottardi ricorda i nomi di Inselvini e di Alberto Bertocchi di Brescia. Deve accudire 7 cavalli e 25 mucche; di tanto in tanto a seconda delle stagioni va, con la slitta o con il biroccio, nella vicina città, al mercato a vendere vitelli e maiali “e al mercato vedevo spesso due o tre giovani con la stella ebraica cucita sul vestito. Sapevamo che i russi avanzavano, molti avrebbero voluto andare ad ovest, in casa di parenti.
Ma non lo potevano fare: andare via voleva dire scappare, sarebbe stato un atto disfattista”. C’era il rischio di venire fucilati dalle SS. Dovettero andare via il 10 gennaio del 1945 perché arrivavano i russi. Caricarono soprattutto cibo, su un carro trainato da due cavalli. Continuava a nevicare. Neve molto sottile, il termometro che andava dai meno 15 ai meno 30, la via di fuga subito intasata da carriaggi. Da un bosco spuntano soldati russi a cavallo, l’ufficiale che li comanda rassicura i civili tedeschi. Più avanti nella colonna, c’è un autocarro della Wehrmacht bloccato da un guasto, C’era nei giorni di guerra qualche momento di festa. Ricordo una nella birreria, l’attuale Pedavena, in un pomeriggio estivo - evidentemente era il 1944 - quando alcune crocerossine vestite di bianco e soldati germanici senza elmetto, senza armi, addirittura sorridenti e premurosi, accompagnarono dal rifugio della Busa, e forse da altri rifugi della città, bambini con le loro mamme.
Si entrò tutti in fila nel locale addobbato da bandiere con la svastica. Consegnarono ad ogni bimbo una confezione di cioccolato avvolta in una carta oleata, una bandierina con la croce uncinata e ciascuno ebbe un giocattolo davvero bello. Mi diedero un aeroplancino di latta di colore verde scuro maculato di nero, con la molla caricata da una chiavetta. Spostando una piccola leva posta dietro la testa del pilota, l’elica girava con un forte ronzio e tubicini collocati sotto le ali sprizzavano lunghe scintille dovute allo sfregamento di pietre focaie.
(11. continua)