Basta psicosi, l'orso non è il nemico
Basta psicosi, l'orso non è il nemico
Orso, urge reset. L’orso bruno non è un nostro «nemico».
E non dovrebbe diventarlo, né in termini di antagonismo violento, né nel nostro immaginario.
Spesso anche i media, dovremmo pure ammetterlo, hanno soffiato sul fuoco del malcontento (diffuso, ma non da tutti condiviso) alimentando una paura irrazionale, che ormai rasenta la psicosi.
Come se il maggiore pericolo della quotidianità in Trentino fosse incontrare un orso. In realtà, statisticamente, non è così. Basta informarsi presso un qualsiasi ospedale di valle. Se vogliamo essere razionali e dire onestamente le cose come stanno, residenti e turisti incorrono ogni giorno in centinaia di incidenti di tutt’altra natura. L’orso, piuttosto, sembra essere diventato una sorta di capro espiatorio. Un orso espiatorio, che viene demonizzato e incolpato di tutti i mali della nostra comunità. Una bestia mannara, che coraggiosi pionieri, portatori di civiltà, cercano eroicamente di combattere a dispetto del dissennato animalismo che serpeggia sotto l’emblema dell’aquila nera. Retorica assurda, si dirà. Appunto.
Toni sopra le righe, strumentalizzazioni politiche, esagerazioni, accuse incrociate, argomentazioni accavallate, omissioni. Soprattutto molte opinioni «tecniche» di esperti che non sono esperti: agricoltori, zootecnici, cacciatori, forestali, turisti, giuristi, è stata tirata in ballo persino la musicologia a proposito dei campanelli anti-orso. C’è da chiedersi: ma un vero etologo non possiamo permettercelo? Non sarà per paura che l’etologia, la sola scienza che ci possa aiutare a capire il comportamento animale, ci direbbe che l’orso – specie protetta - ha la sola «colpa» di fare l’orso? E che le mamme orse difendono i loro cuccioli da quelli che avvertono come pericoli.
Aldilà delle critiche che si possono fare al progetto Life Ursus, alla sua cosiddetta imposizione senza un’adeguata preparazione della popolazione, appare evidente anche dalle lettere inviate ai giornali (che accusano l’orso di «spadroneggiare», bella questa!) una nostra incapacità. Quella cioè di concepire spazi naturali selvatici. Anche a livello istituzionale suscita sdegno il fatto che vi siano aree del Trentino «meno frequentate per colpa dell’orso». Ma il Trentino non è Disneyland, perlomeno non mi pare lo sia ancora diventato, e non sono affatto sicuro che il territorio disneyzzato ci piacerebbe. Che vi siano invece zone ancora impervie, incolte, selvagge e potenzialmente pericolose per i frequentatori disinformati è naturale e anche giusto, per elementari ragioni ecologiche. Nella storia dell’evoluzione dell’Uomo, l’opposizione tra cultura e natura, tra il cotto e il crudo, tra la civiltà e la selvaticità, è sempre esistita ed è un caposaldo di ogni antropologia. Certo le frontiere sono elastiche, secondo le epoche e i luoghi. Quando branchi di lupi affollavano i boschi intorno a Gubbio era miracoloso che qualcuno attraversandoli portasse a casa la pelle, così come sarebbe folle oggi attraversare a piedi le corsie di un’autostrada trafficata. Le cose, gli habitat e i costumi, cambiano. Una volta – ‘sti ani – pettirossi e cardellini finivano in padella, oggi non più. Una volta se grandinava sulle vigne era una catastrofe, oggi c’è l’assicurazione.
Una volta si andava per sentieri senza mountain bike né geolocalizzatori satellitari. Ragionare con la stessa mentalità che nell’Ottocento animava i cacciatori dei grandi predatori concorrenti dell’uomo, cioè gli orsi e i lupi, in nome del diritto a economie di sussistenza (agricoltura di montagna e pastorizia) è anacronistico. Tra l’altro, un’oculata promozione turistica – di concerto con una altrettanto oculata gestione della «risorsa» orso - potrebbe presentare alcune zone del nostro Trentino, ovviamente non tutto, come il Wild North di un’Italia cementificata e iperantropizzata: baite, boschi e orsi, con aree naturali ancora meravigliosamente selvagge e affascinanti. E invece no. Stiamo a piangere sugli alveari scassati (dimenticando di dire che esistono risarcimenti provinciali) e non proteggiamo in maniera adeguata le povere bestie al pascolo che occasionalmente vengono predate da un orso. Basterebbe organizzarsi un po’ meglio, mi pare. Detto per inciso, ci scandalizziamo che una notte l’orso faccia un macello di ovini, non perché ci stia a cuore la loro sorte, ma perché di quelle stesse pecore il macello vogliamo farlo – e di norma lo facciamo - noi. Si chiama antropocentrismo e, aldilà di cronache e polemiche contingenti, sarebbe molto interessante discuterne.
La questione orso evidenzia dunque qualche pecca di questo nostro bellissimo territorio, di cui l’orso espiatorio finirà per essere vittima inconsapevole. Un territorio dove si pretende massima sicurezza ma si usano ancora pesticidi cancerogeni (e questo sì che si vede negli ospedali), un territorio che spesso si chiude poco cristianamente nei confronti di ogni estraneità che non porti denaro, orsi, immigrati, profughi, turisti spiantati, iniziative dei giovani, cultura libera e sganciata dagli sponsor. Un’idea di territorio proprietà privata, dove “sul mio” faccio quelle che voglio io, giusto o sbagliato che sia. Non esattamente il profilo nobile dell’autonomia.
Non vorrei generalizzare, ma è abbastanza facile rilevare autogestioni inclini alla perpetuazione di tradizioni ormai secche e vuote come conchiglie di chiocciole senza il mollusco. Si fa per inerzia, per campanilismi o confuse aspirazioni identitarie. In molti casi siamo lontani da un senso di appartenenza sano, aperto agli aspetti progressivi e anche problematici della globalizzazione, lontani da un’idea di condivisione, che non è soltanto sharing economy, ma filosofia di vita empatica.
In assenza di un reset su queste tematiche ogni straniero che non paghi pedaggio diventa un’insidia, e l’orso un oltraggio alla nostra esistenza. Ultima ratio, è stato detto, l’eliminazione. Bel fallimento sarebbe, proprio l’ultima spiaggia della ragione. Uccidere ciò che ci fa paura? Non sembra un pensiero molto evoluto.