Tradito dal «taglia e incolla», licenziato e sanzionato
Autista cacciato per aver intascato 1.628 euro in modo illecito
Tradito dalla magia del «taglia incolla», uno strumento potente, ma anche pericoloso. È accaduto ad un autista che, dopo essere stato licenziato in tronco con l'accusa di aver intascato denaro dell'azienda, non solo non sarà reintegrato ma deve anche pagare 2.000 euro. In sostanza è accusato di aver promosso una lite temeraria basata su prove artefatte al computer attraverso un uso maldestro, e forse anche illegale, del taglia e incolla.
Il dipendente, un trentenne di Trento difeso dall'avvocato Stefano Giampietro, lavorava come autista per una piccola ditta di trasporti. Nel giugno del 2014 venne licenziato senza preavviso con l'accusa di essersi trattenuto 1.628 euro in contanti che avrebbe invece dovuto versare all'azienda per cui faceva consegne di merce. Il giovane nel suo ricorso sosteneva che le accuse erano del tutto infondate. Anzi, sarebbero state costruite dal datore di lavoro perché il dipendente si era rifiutato di lavorare mentre si trovava in malattia in seguito a infortunio. Per questo il ricorrente chiedeva al giudice di annullare un licenziamento «ritorsivo e discriminatorio».
In giudizio di fronte al giudice Giorgio Flaim si costituiva il titolare dell'impresa di trasporti. Questi, difeso dall'avvocato Attilio Carta, ha sottolineato come il licenziamento disciplinare fosse giustificato dal gravissimo comportamento tenuto dal dipendente. Di fronte a due versioni diametralmente opposte il giudice ha condotto un'istruttoria approfondita per capire se il denaro fosse realmente stato intascato dal dipendente o se, al contrario, il datore di lavoro avesse voluto far fuori l'autista mal digerendo la sua prolungata malattia.
Determinante è stata la deposizione della segretaria contabile della ditta per cui venivano fatti i trasporti. Questa ha spiegato la procedura: l'autista riceveva una mail che indicava i clienti presso cui eseguire la consegna e quelli che avrebbero dovuto pagare in contanti. L'autista dunque incassava una sorta di contrassegno che poi era tenuto a versare all'azienda per cui faceva le consegne.
L'autista, allora in malattia, pare non avesse depositato gli incassi di alcune giornate di consegne. Sollecitato dal suo datore di lavoro, aveva consegnato alla segretaria gli assegni, ma non 1.628 euro che aveva ricevuto in contanti. Circostanza che l'autista nega fermamente e anzi, a conferma della sua versione dei fatti, ha prodotto copie delle email delle consegne con la dicitura «PAGATO» a fianco della voce «contanti». Secondo l'azienda, però, si tratterebbe di documentazione contraffatta. Questo sarebbe confermato sia da una consulenza grafologica, sia dal maldestro uso del taglia e incolla. L'autista, infatti, avrebbe artefatto digitalmente la ricevuta di pagamento utilizzando vecchie mail su cui appariva il timbro della ditta, timbro che però non era più in uso da mesi. E così il giudice ha rigettato il ricorso dell'autista perché l'appropriazione di somme di denaro «integra ampiamente una giusta causa di licenziamento». Viene inoltre esclusa la natura disciminatoria del provvedimento. C'è di più: secondo il giudice «la produzione di documenti falsi costituisce senz'altro una condotta processuale caratterizzata da malafede» e dunque il ricorrente, oltre a rifondere 1.800 euro di spese legali alla controparte, è stato anche condannato a pagare 2.000 euro a titolo di «responsabilità aggravata».