Lavoro con i profughi, fra tensioni e attese deluse Il diario di un operatore del centro di via Brennero

di Domenico Di Mattia

Io sono il portinaio. Quello che ero, quello che so fare, non ha più importanza. Adesso lavoro nei centri di accoglienza, sul gradino più basso. E ringrazio il cielo, e mamma Provincia. I portinai non contano niente, però vedono e sentono tutto.

Così mi hanno chiesto di raccontare. Lo faccio, ma se qualcuno si aspetta rivelazioni sensazionali o al contrario la solita commozione per i profughi, credo che rimarrà deluso.

Se proprio uno ha buoni sentimenti da spendere, lo invito a rivolgere un pensiero a chi in questo mondo lavora: a cominciare dagli operatori ragazzini, tutti i giorni in prima linea, spesso senza addestramento specifico, magari pagati a progetto o completamente volontari.

Ogni santo giorno, dalle 8 alle 5, a subire pressioni, preghiere, minacce, lamentele e qualche volta aggressioni fisiche.

GIORNO 1.
Sono felice: dopo un anno e mezzo di disoccupazione mi offrono di andare a lavorare nei centri di accoglienza. Finalmente un lavoro, e nel sociale; l'ho sempre desiderato. Sono con un gruppetto di nuovi al campo di Marco.

Ci fanno un discorso introduttivo: siate cortesi e cordiali con i «ragazzi», ma fermi; cercate di capire e interagire, hanno bisogno di parlare e di aiuto, ma non fatevi sopraffare, riferite qualunque problema. Non è un lavoro semplice e se qualcuno non se la sente, lo dica subito. Fuori il campo è grigio e freddo, ghiacciato, sembra l'Alaska. Dentro l'ufficio c'è un bel calduccio.

Quando usciamo per fare un giro e conoscere il luogo, vedo in alto i container dove ci sono un'ottantina di persone, prevalentemente pakistani, da mesi.

I servizi igienici sono ancora più su: una ventina di metri al freddo per andare anche solo a pisciare. Più giù ci sono le «casette», appena meglio dei container, ma con i bagni all'interno e anche una cucina, due stanze da sei con letti a castello. La mensa è di fronte ai container e quando entriamo per preparare in vista della cena, è gelida. Ci diamo da fare, controlliamo la distribuzione dei pasti affidata a una ditta esterna, che porta il cibo precotto da fuori. Ci sono i soliti mugugni per la qualità del cibo, ma niente di che. Controlliamo che facciano le pulizie dopo, qualcuno di noi mangia quello che è avanzato. La giornata finisce. Per me un'ora di macchina per tornare a casa, ma va bene.

GIORNO 3.
È una domenica gelida e assolata, sono di turno al Quercia di Rovereto. Ex hotel malconcio, dove vivono una ottantina di persone, pakistani e centrafricani, in stanze con bagno da due-tre; con una sala mensa al piano terra. A parte sorvegliare la distribuzione dei pasti, un paio d'ore all'inizio e un paio d'ore a fine turno, non c'è niente da fare. Oggi non ci sono gli operatori, nulla. È andata in blocco la caldaia e dentro si gela. Sto tutto il tempo con la giacca a vento, e cerco di leggere un libro che mi sono portato, ma non ce la faccio. Mi devo alzare in continuazione per muovermi e avere un po' di calore. Come dio vuole finisce e mi infilo in auto per tornare a casa, un po' meno di un'ora.

GIORNO 4.
Oggi sono alla Residenza Brennero che dovrebbe essere la mia destinazione definitiva. Arrivo in anticipo per il turno intermedio, dalle 16 alle 23, e faccio conoscenza con i colleghi, tutti stipati in guardiola, a chiacchierare e sbadigliare. Arriva una ragazza sui 25, mi pare, me la indicano come la responsabile della struttura. Ci saluta veloce si infila nel corridoio che porta gli uffici. Dico ai colleghi che vado a presentarmi e a proporre, in aggiunta ai compiti standard, qualche progetto da fare con i ragazzi, magari lezioni di lingua o conversazioni sulla cultura italiana. Mi guardano con un sorrisetto beffardo. La responsabile mi dice che penserà alle mie proposte e mi farà sapere. Intanto mi consegna alcuni fogli informativi sul sistema dell'accoglienza in Trentino.

GIORNO 5.
Faccio un giro completo della Brennero, e mi rendo conto che a parte l'atrio, che puliamo noi la mattina, scale, corridoi, aule, locali vari, tutto è sporco, anzi lercio. Non solo una patina grigia, ma chiazze nere incrostate, cicche per le scale, briciole, cartacce e perfino cottonfioc usati. La lavanderia ha il pavimento impastato di fango, i vasconi neri e cumuli di vestiti abbandonati. Negli altri locali, puzza di fumo e ancora cicche per terra.

GIORNO 6.
Oggi dovrebbe essere giorno di pulizie, sono di turno otto «ospiti». A mezzogiorno non si è ancora presentato nessuno. Avverto un operatore e mi dice di andarli a cercare. Un paio non si trovano, uno dice che ha male alla schiena e non può sollevare il secchio, un altro si presenta con fare volenteroso e si fa dare l'occorrente; dopo dieci minuti torna con l'asta del moccio spezzata, dicendo che non va bene per pulire, troppo fragile. Non è la prima volta che lo fa e lo farà ancora, ma questo quel giorno non lo so, così lo ringrazio comunque. L'ultimo che manca all'appello è ancora in camera e non risponde più alle bussate. Mi faccio dare l'autorizzazione ed entro con le chiavi di servizio, lo trovo a letto che fa finta di dormire. Perdo la pazienza e lo strapazzo in inglese. Scende di malavoglia con me e nell'atrio c'è un silenzio irreale. Le mie urla si sono sentite in tutto l'edificio e nessuno osa aprire bocca di quelli che di solito oziano nell'atrio o giocano a calciobalilla. Quando torno in guardiola, un collega scuote la testa.

GIORNO 20.
È passato il Capodanno e continuo a dormire male, anche a causa dei turni che a volte mi fanno tornare a casa verso mezzanotte e altre mi costringono a svegliarmi alle 5.30 del mattino. Ho smesso di andare a cercare i ragazzi di turno per le pulizie, mi limito a segnalarlo agli operatori. In genere se ne dimenticano, o hanno cose più importanti. Solo uno si occupa della cosa, è un professionista con contratto pieno e studi sociali alle spalle. Lo chiamerò l'Olandese, per via dell'aspetto fisico. È anche l'unico che viene da noi in guardiola a chiederci quello che abbiamo da segnalare e che guarda il registro su cui siamo tenuti ad annotare tutto quello che succede.

GIORNO 21.
Ho cominciato a conoscere molti dei «ragazzi», davvero sono poco più che adolescenti. Passano la maggior parte del loro tempo a oziare, giocare a calciobalilla nell'atrio, chiedere vestiti e altro agli operatori, lamentarsi. Qualcuno lavora, altri cercano. Finiscono nei bar o nei ristoranti dove li fanno lavorare un mese o due gratis «per imparare», poi li mandano via. Bat è del Mali, è qui da tre mesi e in italiano sa dire solo «Ciao, capo. Come va?». Ci intendiamo in francese, con difficoltà fra la sua pronuncia terribile e la mia imperizia. È scappato perché non voleva fare il soldato, il resto della sua famiglia è là, tranquilla. As, pakistano, faceva politica, scappato perché il suo partito ha perso le elezioni. Gli ho chiesto se temeva per la sua vita, ma non è stato chiaro, parlava genericamente di ritorsioni. Di mestiere è chef, il resto della sua famiglia è là. Non posso dire di avere un quadro completo, ma l'unico ad avere una vera storia di persecuzione è un nigeriano cristiano, scappato di notte dal suo villaggio perché i Boko Haram lo hanno minacciato di morte se non si convertiva.

GIORNO 22.
Questa mattina primo turno, inizio alle 7. Arrivo che è ancora buio, fa un freddo schifoso. Insieme a me arriva un collega, ci scambiamo un cenno in silenzio mentre lui tira le ultime boccate dalla sigaretta. Notiamo subito una sedia fracassata nel viale, probabilmente scagliata giù da una finestra, proprio davanti all'entrata. I pezzi sono sparpagliati nel raggio di due-tre metri. Il guardiano di notte non ha sentito niente. Più tardi, quando arrivano, segnaliamo la cosa agli operatori. Ci aspettiamo che ci chiedano di aiutarli a trovare chi è stato, o che se ne occupino direttamente. Passa tutto il turno e non succede niente. Prima di andare, chiediamo cosa dobbiamo farne della sedia, o meglio dei pezzi. Ci dicono di andare a buttare tutto nella spazzatura. Obbediamo e ce ne andiamo a casa.

GIORNO 23.
Non ho mai avuto risposta alle mie proposte di fare attività extra con i ragazzi. Oggi ho parlato con l'Olandese, a lungo. Ovviamente è molto cauto, ma almeno un po' si fida. Gli ho espresso alcune perplessità sul modo di gestire le cose. Non ha commentato, solo una frase: «Io farei le cose diversamente». Poi ha chiuso la conversazione, dicendo che lui in passato si è già esposto con una lettera e le alte sfere non hanno gradito. Qualche giorno dopo, saprò che ha chiesto il trasferimento ad altro incarico. Non lo vedrò più.

GIORNO 35.
Oggi all'arrivo ho trovato tutte le vetrate spaccate, un danno da migliaia di euro. Uno degli «ospiti», K., cui distribuiamo quotidianamente misteriose pillole fornite dalla Croce rosse, ha dato in escandescenze, attaccato briga sulle scale con un gruppetto di altri, sferrato un pugno in faccia a un'operatrice che cercava di calmarlo e poi è andato fuori, ha preso un sasso e metodicamente ha cercato di spaccare le quattro vetrate. Sono antisfondamento e non sono crollate, per fortuna. Ieri sera - mi hanno raccontato- sono arrivati i carabinieri, le ambulanze, i responsabili provinciali: il finimondo.

L'autore è ora ricoverato allo psichiatrico. Con l'Olandese andiamo a portargli un po' di vestiti. Gli chiedo se verrà espulso. Mi dice che è improbabile, solo trasferito ad altra struttura. Quando torno faccio uno dei soliti giri di ispezione all'esterno e sul retro trovo uno zainetto chiuso, con dentro roba che tintinna. Lo porto in guardiola e uno dei colleghi lo riconosce come lo zainetto di K. Dentro ci troviamo quattro lattine di birra e una bottiglia di superalcolico, vuote. Un bel cocktail con le «pillole».
Arriva la ragazza che ieri si è beccata il pugno, le chiedo come sta. Alza le spalle e sorride, forse non è la prima volta. Qualche tempo dopo sarà minacciata ancora, e pesantemente, da altri.

GIORNO 61.
Sono stanco, nonostante i molti giorni di ferie che mi hanno assegnato di ufficio. Sono stato sbattuto da una struttura all'altra come una sorta di indesiderabile, perché il giorno dell'apertura delle ex caserme (la Residenza Fersina) ho avuto a che dire su questioni di igiene con una capetta della ditta che fornisce i pasti. La cosa divertente è che mi hanno chiesto una relazione scritta, l'hanno messa agli atti e hanno detto che avevo ragione. Per quieto vivere però era meglio se non stavo in posti «caldi».

GIORNO 80.
Sono al Quercia di Rovereto da qualche giorno. Qui il tempo sembra passare più in fretta, più cose da fare. L'altro giorno un operatore mi ha chiesto un parere su un progetto di animazione e ne abbiamo discusso a lungo.

GIORNO 81.
Oggi è domenica, una bella giornata di sole, quasi calda. Chiacchiero con i colleghi, scambiamo battute, chiedo cosa c'è a pranzo agli addetti ai pasti.
Tutto precipita nel giro di poco. Partono le solite lamentele per la qualità del cibo, ma riesco a calmare i primi, centroafricani francofoni. Arriva poi un nigeriano con cui altre volte ho parlato amichevolmente, ma c'è qualcosa che non va. Non mi saluta, si rifiuta di darmi il ticket del pasto, sbatte il vassoio di plastica sul bancone di distribuzione e si rivolge a muso duro agli addetti. Per calmarlo dico di riempirgli comunque il vassoio. Intanto riprendo il ragazzo e lo invito a comportarsi bene, ma per tutta risposta dà un calcio a due sedie.

Si scatena il finimondo. Gli intimo seccato di rimettere a posto le sedie, per tutta risposta mi minaccia in inglese e si avvicina con il pugno sotto il mio naso. Interviene un collega, ma la situazione sfugge di mano. Il ragazzo torna al bancone, prende il vassoio colmo di cibo e lo getta addosso all'addetta, poi cerca di darle un pugno. Un pakistano interviene forse in difesa della donna. Altri, africani, a dar manforte al nigeriano. Scattano in piedi gli altri pakistani. Volano, pugni, calci, sediate. Il collega si mette in mezzo a cercare di dividerli, e se ne prende un bel po'. Non posso fare altro che chiamare la polizia, come mi urla sull'orlo della crisi isterica una ragazza della ditta di pulizie appena arrivata e spintonata dalla massa.
Per fortuna non succede niente di grave e la polizia arriva in pochi minuti. Il resto è nel rapporto del commissariato di Rovereto, dove ho passato il pomeriggio a rendere «sommarie dichiarazioni». Non ho voglia di parlarne.

CONCLUSIONE.
Mi mancano altri quattro giorni, ma chiedo di farne solo due, anche se andrò in negativo con le ferie. Mi accontentano. Dal Progettone mi arriva l'offerta di fare un altro mese. Un'altra busta paga mi farebbe comodo, ma no, grazie. Non sono così disperato.

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