Napoli, coppia radicalizzata forniva armi a Iran e Libia
Dopo essersi convertito all'Islam aveva cambiato nome: si faceva chiamare Jaafar, in onore del sesto Imam, come spiegò in una e-mail a un iraniano con cui stava concordando un incontro.
Mario Di Leva, 69 anni, nella sua attività di mercante di armi, che svolgeva a tempo pieno, non badava però alle contrapposizioni cruente che nel mondo musulmano caratterizzano da quattordici secoli i rapporti tra sunniti e sciiti: faceva affari infatti indistintamente sia con il governo provvisorio libico - ed era in rapporti con esponenti di primo piano dell'Isis (sunniti) - sia con il governo dell'Iran sciita. Coadiuvato sempre dalla moglie, Annamaria Fontana (nella foto) , 63 anni, un passato di impegno politico che l'aveva portata ad assumere l'incarico di consigliere comunale, prima nel Pci e successivamente nelle fila del partito socialdemocratico.
Nei confronti della coppia di San Giorgio a Cremano è stato eseguito ieri un provvedimento di fermo dal Nucleo di polizia tributaria della Guardia di Finanza di Venezia. Nel decreto firmato dai pm della Dda di Napoli Catello Maresca e Maurizio Giordano, coordinati dal procuratore aggiunto Giuseppe Borrelli, viene contestato il reato di traffico internazionale di armi. Avrebbero fornito armamenti e munizioni a dispetto dell'embargo internazionale deciso dall'Unione Europea che impedisce questo tipo di commercio con paesi inseriti nella black list.
Stessa accusa per Andrea Pardi, amministratore delegato della Società Italiana Elicotteri, già coinvolto un un'altra inchiesta su traffico di armi e reclutamento di mercenari tra Italia e Somalia e per il libico Mohamud Alì Shaswish. Indagato in stato di libertà invece Luca Di Leva, figlio della coppia di San Giorgio a Cremano, che si sarebbe «radicalizzato», come spiegano gli inquirenti, insieme con il padre.
Dalle indagini sono emerse forniture di eliambulanze trasformate in elicotteri da guerra, elicotteri, missili terra-aria, missili anticarro di fabbricazione di Paesi dell'ex Unione Sovietica.
Nell'inchiesta si fa riferimento anche a macchinari destinati all'Iran per la produzione di munizioni.
I coniugi Di Leva si recavano spesso in Medio Oriente e in Nord Africa. Agli atti vi sono diverse foto in cui compaiono accanto all'ex premier della Repubblica Islamica Mahmud Ahmadinejad. Ma nelle carte c'è di più: attraverso appunti rinvenuti nel computer di Di Leva, si risale a un incontro con Hamed Margani, indicato come rappresentante di Abdel Hakim Belhaj.
Quest'ultimo è considerato «combattente islamista e comandante dei ribelli anti Gheddafi della guerra civile libica iniziata nel 2011». I due sarebbero stati anche in contatto con i sequestratori di quattro italiani, rapiti in Libia nel 2015 (rapimento che si concluse tragicamente con l'uccisione di due ostaggi, Fausto Piano e Salvatore Failla). In uno scambio di battute su whatsapp tra marito e moglie si intuisce che i due abbiano conosciuto i rapitori in una fase di poco antecedente al sequestro. E i magistrati non escludono che abbiano avuto un ruolo per le trattative e il pagamento di un riscatto.
Sono affari a tanti zero sia quelli realizzati sia quelli non andati in porto, scrivono i pm. Si parla di accordi per la fornitura alla Libia (poi non concretizzati) di 13.950 M14, una eliambulanza convertibile ad uso militare, elicotteri di assalto sovietici MI-17, tre elicotteri Mangusta A129 e missili di vario genere. Va in porto invece la vendita di una serie di armamenti di produzione sovietica, tra cui missili anticarro e terra-aria nonché l'esportazione in Iran di pezzi di ricambio di elicotteri per la somma di 757.500 euro, attraverso una società panamense.