«Una Chiesa vicina a giovani e indigenti»
L'arcivescovo di Trento Lauro Tisi racconta alla Stampa gioie, sorprese e difficoltà del suo primo anno di episcopato alla guida di una diocesi della quale, nei dieci anni precedenti, era stato vicario generale. «Mi sento profondamente inadeguato, mi son trovato questa nomina che assolutamente non prevedevo, dopo dieci anni da vicario sognavo di andare in parrocchia» dice.
«È stato un anno buono - chiarisce Tisi alla Stampa - avevo la preoccupazione di non essere all'altezza del compito, e questa continua a esserci, mi rendo conto che essere vescovo non è un onore ma una responsabilità. Però devo dire di aver trovato nel clero e nelle comunità tante belle sorprese».
«Per la mia diocesi ho sempre nutrito stima e affetto» «abbiamo un senso di appartenenza molto radicato, siamo persone che sentono molto il territorio. Una specie di rivendicazione un po' identitaria, che secondo me non fa male. Io ho paura di quelli che non amano il campanile, basta che non lo si usi contro gli altri, in tal caso fa solo male. Quando l'identità si apre diventa una risorsa. È vero che conoscevo la diocesi, eppure Dio mi ha sconvolto con tante sorprese che non avevo pensato né preparato».
Cominciamo dalla prima, qual è? «Io mai avrei sopportato di celebrare la messa quotidiana da solo. Sono sempre stato abituato a celebrare in comunità. Diventato vescovo mi son detto che dovevo trovare il modo di continuare a celebrare ogni giorno con la gente. Un sacerdote che segue gli universitari mi ha proposto di invitarne alcuni per la celebrazione alla mattina. E dall'aprile dell'anno scorso questo appuntamento non si è mai interrotto».
Lei parla spesso del "Dio capovolto". Che cosa significa? «Fin dal giorno della mia nomina è qualcosa che mi è venuto fuori quasi per caso: ho detto che noi dobbiamo parlare di un "Dio capovolto". E questo è diventato un po' il mio leitmotiv. Credo che ci sia bisogno di raccontare Dio a partire dall'umanità di Gesù Cristo». «Ai giovani dobbiamo dire: a volte siete lontani dalla Chiesa perché Dio vi viene raccontato in modo improprio, magari in termini corretti, ma che vi tengono a distanza».
I giovani sono un'altra delle sue priorità. Come si annuncia loro il Vangelo? «Appunto partendo dall'umanità di Gesù Cristo. I giovani sono i veri poveri di questo momento, la loro è diventata categoria esistenziale. Vorrei tanto che tornasse una stagione della vita. Oggi i giovani non hanno voce e non sono ascoltati, si parla su di loro ma non gli si dà spazio».
Come ha organizzato il suo lavoro? «Volevo uscire dal mio ruolo precedente, e ho trovato che la via del camminare insieme e della corresponsabilità sia la più indicata». «Non decido da solo. Abbiamo rinnovato gli organismi del consiglio presbiterale e del consiglio pastorale diocesano».
Come si può oggi annunciare il Vangelo toccando il cuore delle persone? «Certamente non con una narrazione accademica o solo catechistica, ma frequentando la gente. Senza aver paura delle persone, delle loro storie accidentate. Bisogna andare con la fiducia, con la certezza che comunque quel terreno è abitato da Dio. Dobbiamo superare l'idea dei recinti e dei territori sacri, anche l'idea dei terreni puliti: il terreno umano è sempre pulito e allo stesso tempo sporco. E allora ecco un altro tema importante, quello della sobrietà e di una Chiesa che si mostri con il volto della vicinanza, della prossimità e della povertà. Penso che per i prossimi anni il nostro obiettivo sia questo: rimettere in gioco le nostre strutture. Già prima che diventassi vescovo in diocesi c'erano 21 canoniche messe a disposizione di situazioni di disagio e di povertà. Devo dire che questo è servito di più di tante catechesi. La gente vede che la canonica - ne abbiamo tante disabitate nei paesi - è andata a soccorrere un disagio, a ospitare profughi o persone con disagio psichico. Il fatto che l'abbiamo fatto non è diventato solo una buona notizia. A volte, dopo le prime comprensibili paure, è accaduto che il paese si sia rimesso in gioco».