«La laurea va bene ma è meglio specializzarsi»
Un luogo simbolico, scelto non a caso. I padiglioni di Trento Fiere (l’ex Cte di via Briamasco) che fino a pochi giorni fa hanno ospitato brandine e cucine da campo della Protezione civile presenti all’Adunata degli alpini e che entro un paio d’anni diventeranno mensa e spazio sempre aperto di socializzazione dell’università (dodici mesi per le gare, altri dieci per l’esecuzione), si sono trasformati in un’agorà di discussione e confronto sui temi della formazione universitaria, della ricerca, del rapporto tra cultura e territorio. Formula informale. Una trentina di tavolini tondi, stile caffè, sedie trasparenti, grandi schermi a circondare rappresentanti politici, amministratori, docenti, esponenti di categorie economiche che hanno scelto di partecipare, per quasi due ore, a questa sesta assemblea aperta dell’ateneo.
Nel 2013, 2014 e 2017 era stato scelto l’atrio del Dipartimento di Lettere. Nel 2015 il Dipartimento di Psicologia a Rovereto. Nel 2016 il Muse. Tanti gli stimoli alla riflessione su presente e futuro di un’università oggi finanziata con 100 milioni di euro annui dalla Provincia e da 16 dallo Stato, come ha precisato l’assessora provinciale Sara Ferrari. Un’università che, quando è nata, «nel 1962, contava 120 studenti in una città di 70mila; oggi ne conta oltre 16mila in una città di 117mila», come ha ricordato il sindaco Alessandro Andreatta. In 56 anni si sono laureati 58.400 studenti, il posizionamento nelle classifiche di qualità è da anni da podio e la forte internazionalizzazione è diventato marchio di fabbrica. Nel mondo globale e nell’Europa in cui la conoscenza delle lingue e la marcata mobilità sono scontati, una tendenza degna di rilievo (figlia della riforma dei cicli di studio del 2000, con l’introduzione del 3+2), come sottolineato dal rettore Paolo Collini, è che oltre metà dei laureati triennali a Trento sceglie altre università per la specialistica e, viceversa, metà degli iscritti alle lauree magistrali ha conseguito la laurea di primo livello in altri atenei. «I dati sono diversi dalla percezione - ha osservato ancora il rettore - ovvero laurearsi serve. Si discute molto dell’inutilità del pezzo di carta in un mercato del lavoro avaro di opportunità. Le aziende stentano a trovare certi profili di laureati. C’è una forte domanda di formazione avanzata. Dobbiamo fare di più nel campo della formazione terziaria professionalizzante, il post-diploma non accademico. Come in Germania ma con più flessibilità».
Per Innocenzo Cipolletta, l’ultima assemblea da presidente dell’ateneo. Dopo 15 anni. «La delega provinciale, attuata dal 2011, permette stanziamenti più alti (del 30-40%) e bilanci certi. Trento è sinonimo di qualità della ricerca e si è caratterizzata - ha detto - per il suo essere a misura di studenti, ricercatori, docenti».
In sala, nutrita la pattuglia leghista, con i deputati Fugatti, Zanotelli, Cattoi e la presidente del consiglio comunale di Rovereto Mara Dalzocchio. La deputata autonomista (e docente universitaria) Emanuela Rossini critica con il 3+2: «È mancata la carica innovativa. Il “+2” spesso è una sintesi del primo triennio universitario». Presenti anche i sindaci «civici» Valduga di Rovereto e Oss Emer di Pergine. Si sono visti anche il presidente degli albergatori Battaiola, il confermato presidente di Itas Lorenz, Monica Baggia, presidente di Trentino Trasporti, l’ex deputato Mauro Ottobre e il direttore di Confindustria Busato, convinto che Hit, il consorzio per il trasferimento tecnologico tra Università, Fbk, Fondazione Mach, Trentino Sviluppo (oggi autofinanziato al 30%), possa «scaricare meglio a terra» il suo potenziale per l’innovazione delle aziende (che non sono senza colpe). «Hit in questi due anni ha soddisfatto per numero di brevetti, start up create, progetti europei, formazione all’imprenditorialità - ha rimarcato Flavio Deflorian, prorettore per il sistema produttivo - ma serve costanza».