S.Chiara, operò la moglie «in incognito» due chirurghi a processo per falso
Un chirurgo, non dipendente dell’Azienda sanitaria di Trento, operò la moglie al Santa Chiara senza avere l’autorizzazione dell’ospedale.
Sul registro operatorio (o meglio nella sua prima versione «breve») venne indicato che ad eseguire la delicata operazione chirurgica era stata come prima operatrice una dottoressa del Santa Chiara che aveva poi compilato il verbale. Un «pasticcio» che ha portato all’apertura di un procedimento penale che vede imputati entrambi i chirurghi: colei che compilò il registro indicando erroneamente se stessa come prima operatrice deve rispondere di falso in atto pubblico, il collega «esterno» che materialmente eseguì l’intervento è accusato di concorso morale in falso.
Chiariamo subito che l’intervento chirurgico, eseguito il 22 maggio 2017 riuscì perfettamente. Aggiungiamo che i due imputati sono entrambi medici di grande esperienza (l’«esterno» è primario in Veneto), molto stimati dai colleghi e con migliaia di interventi chirurgici alle spalle che hanno salvato la vita a molti pazienti. Entrambi però rischiano di «scivolare» su una vicenda solo in apparenza formale: se qualcosa fosse andato storto, difficilmente l’assicurazione dell’Azienda sanitaria avrebbe pagato un eventuale risarcimento di fronte ad un intervento fatto in una sala operatoria del Santa Chiara da un chirurgo che non è dipendente dell’Azienda sanitaria di Trento (lo è stato in passato). Non a caso la direzione dell’ospedale, informata dal primario del reparto dello spiacevole «fuori programma» in sala operatoria, segnalò l’accaduto alla magistratura. Le indagini condotte dalla pm Licia Scagliarini si conclusero con la richiesta, accolta dal giudice, di due decreti penali di condanna da 27 mila euro. Entrambi gli imputati, convinti di non aver commesso alcun reato, hanno fatto opposizione.
Il procedimento penale si è così spezzato in due. Il chirurgo «esterno» e attuale primario in un ospedale del Veneto, difeso dagli avvocati Nicola Giuliano e Andrea Merler, ha scelto il processo con rito abbreviato condizionato all’audizione di due testimoni. La chirurgo del Santa Chiara, difesa dall’avvocato Ivan Alberti, ha preferito invece la strada del pubblico dibattimento. In entrambi i procedimenti si è costituita parte civile, con l’avvocato Monica Baggia, anche l’Azienda sanitaria che chiede il risarcimento dei danni non patrimoniali.
Cosa accadde quel giorno in sala operatoria verrà dunque ricostruito davanti ai giudici. Ci sono però alcuni punti fermi. La moglie del primario in Veneto scelse di essere operata a Trento dove avrebbe trovato una validissima equipe. Al marito (pare sia una prassi) sarebbe stato consentito di assistere all’intervento, ma non di prendere parte attiva. Lo stesso sostiene di non aver avuto alcuna intenzione di impugnare il bisturi. Eppure fu lui e non la pur stimata collega del Santa Chiara ad eseguire l’intervento. L’«esterno» sostiene di essere «sceso in campo» perché l’anestesista aveva scarsa esperienza e perché il secondo operatore era una specializzanda in chirurgia.
Da un punto di vista penale poco importano le ragioni del «colpo di mano» in sala operatoria, anche perché l’operazione è ben riuscita. Il reato contestato si riferisce ad una fase successiva: sul primo verbale nel registro operatorio la dottoressa non fece alcun accenno alla presenza attiva del collega «esterno». Si trattava però di un documento sommario e provvisorio: visto che la chirurgo quel giorno aveva numerosi interventi, ne dava una descrizione sommaria (e infatti oltre al nome del collega del Veneto mancavano anche le generalità di altri sanitari presenti). Qualche giorno dopo nel registro venne inserito un verbale più completo con i nomi dei presenti.
Sarà il processo a chiarire cosa accadde durante e soprattutto dopo l’intervento chirurgico. Tra i testimoni citati dalle parti c’è una decina di sanitari: dal primario alla specializzanda che, inconsapevolmente, fece emergere il caso raccontando chi aveva eseguito l’operazione. Saranno chiamati a deporre gli anestesisti: anche il nome di chi aveva eseguito l’anestesia, pur in presenza di una collega, non compare nel verbale.
È stato un «pasticcio» dunque, a prescindere dalla rilevanza penale dei fatti. Anzi, per la procura si tratta di «modalità esecutive fuori da ogni regola».