Cervone, scienziata elettronica: dai lab di Amazon alla Facoltà di Povo
Il suo film preferito, non a caso, è «2001 - Odissea nello spazio». All’università ha studiato prima linguistica e poi informatica, ma alle soglie del diploma aveva valutato anche astrofisica. Oggi Alessandra Cervone, 29 anni, di Pescara, è dottoranda al dipartimento di ingegneria e scienza dell’informazione all’Università di Trento, dove sviluppa sistemi di dialogo avanzati nei robot. Se in un futuro abbastanza prossimo potremo sostenere conversazioni complesse con le macchine - dal dispositivo Alexa di Amazon ai sistemi installati sulle nostre autovetture - lo dovremo anche ad Alessandra e al team di ricercatori col quale lavora, coordinato dal professor Giuseppe Riccardi.
Da Pavia, dove ha studiato Lettere moderne e poi si è specializzata in linguistica computazionale, a Edimburgo - dove ha conseguito una seconda laurea in Informatica - passando per la Silicon Valley, il curriculum di Alessandra è un lungo elenco di esperienze in dipartimenti e aziende importanti. «Ma dopo un anno di lavoro in Germania, dove ho lavorato a un sistema di dialogo per automobili Mercedes, ho capito che avrei voluto intraprendere la strada della ricerca: così ho rinunciato al mio contratto a tempo indeterminato e ho presentato domanda di dottorato a Trento».
Appena arrivata, ad Alessandra viene chiesto di coordinare un gruppo di studenti della specialistica di Informatica per la candidatura all’Alexa Prize, la primissima competizione indetta da Amazon che selezionava i gruppi di ricerca per costruire una versione di Alexa in grado di sostenere una conversazione di 20 minuti. Oltre 100 le candidature, «noi siamo rientrati tra i 15 selezionati, ed eravamo l’unico team dall’Italia. Non siamo arrivati in finale ma ci è stato comunque assegnato un premio di 100mila euro». Alessandra però si fa notare e subito dopo è Amazon a contattarla, proponendole un tirocinio.
«La scorsa estate sono stata tre mesi e mezzo nel “Lab 126”, vicino a Mountain view, a sud di San Francisco, lavorando come applied scientist». Un percorso d’eccellenza, insomma, in un ambito - quello dell’informatica - che ancora resta in larghissima parte appannaggio degli uomini. «Lì, come anche a Edimburgo, avevo notato che c’era un’altissima prevalenza maschile. Il mio team era abbastanza bilanciato, ma soprattutto tra chi aveva qualifiche un po’ più elevate la percentuale di uomini era molto alta. Diciamo che se sei una donna, almeno in questo settore, la sensazione che hai è che ti devi costruire una tua credibilità: a noi è sempre richiesto di comprovare quello che si sa fare». Anche al di fuori dell’ambito accademico sembra però prevalere la percezione di una materia riservata agli uomini: «In tanti quando sentono quello di cui mi occupo tendono a pensare che, almeno per l’ambito tecnico, io sia meno competente. Molti mi chiedono stupiti se so programmare, ma nessuno potrebbe affrontare un dottorato in informatica senza saperlo fare».
Qualcosa sta cambiando nella considerazione delle donne? «Penso di sì. Credo che si sia un po’ scardinando l’idea che l’informatica o in generale le materie scientifiche non siano «roba da donne». Credo anche che alcuni giudizi siano frutto di stereotipi: dagli Usa viene un po’ questo modello dell’informatico «nerd». Servono invece modelli forti di scienziate da proporre alle ragazze, magari nelle scuole, e credo servano anche misure di supporto nella conciliazione per evitare che si debba rinunciare alla carriera qualora si affronti una maternità. In generale, poi, penso che sarebbe bello se nessuna di noi dovesse trovarsi a pensare: «Se avessi un altro aspetto i miei colleghi mi riterrebbero forse più in grado?».