Sait, illegittimo il licenziamento del dipendente cardiopatico
Davide e Golia; un dipendente con invalidità del Sait contro il consorzio delle cooperative di consumo che festeggia 120 anni di successi. Dopo una battaglia legale dagli esiti alterni, ha vinto l’operaio che faceva parte degli 80 lavoratori mandati a casa nel 2018 a conclusione di una procedura di licenziamento collettivo. Uno di loro - un ex magazziniere, poi addetto alla pulizie, cinquantenne con problemi cardiaci - ha fatto ricorso per far annullare il licenziamento.
Richiesta accolta dalla Corte d’appello che, ribaltando i due giudizi di primo grado, ha dichiarato l’illegittimità del licenziamento condannando il Sait a reintegrare il dipendente sul posto di lavoro e al pagamento in favore di quest’ultimo di 12 mensilità più i contributi previdenziali. Non solo, in sentenza i giudici parlano di «discriminazione indiretta per disabilità», anche se questa valutazione poi non viene ripresa nel dispositivo finale.
Il lavoratore era stato assunto dal Sait nel settembre del 2003, e stabilizzato l’anno successivo, con mansioni di magazziniere. La situazione si complicò in seguito ad un infarto. Al rientro dalle cure il dipendente aveva un’invalidità accertata del 50%, ma era comunque abile al lavoro sia pur con alcune limitazioni. Nel 2013 venne distaccato presso una cooperativa interna che si occupa delle pulizie presso gli uffici del Sait. Il distacco si concluse nel 2016, ma per i dipendenti tirava già una brutta aria: l’anno seguente, infatti, venne aperta la procedura di licenziamento collettivo per 116 lavoratori, poi ridotti ad 80.
Tra questi c’è anche l’ex magazziniere con problemi cardiaci che, mentre Sait e sindacati trovavano un accordo, decise di percorrere la via giudiziaria affidandosi all’avvocato Gianfranco de Bertolini. In primo grado il ricorso venne respinto, ma in appello i giudici hanno dato una lettura molto diversa ai fatti dichiarando il licenziamento illegittimo. Oggetto di contestazione sono i “punteggi” in relazione alle esigenze tecnico produttive elaborati, in accordo tra sindacati e azienda, per stabilire chi dovesse essere licenziato. Tra i parametri individuati c’era l’indice di costo medio dei vari lavoratori. «Si tratta di un parametro - si legge in sentenza - sicuramente inerente ad un criterio di mero risparmio di costi e sicuramente idoneo a introdurre una discriminazione indiretta per disabilità, atteso che l’apparente neutralità va in realtà a penalizzare più degli altri quei lavoratori che per essere disabili più facilmente fruiscono di periodi di assenza per malattia o di periodi di assenza per terapie». Secondo il Sait nella nuova organizzazione non erano disponibili mansioni adatte ad un lavoratore con problemi cardiaci e questo determinava un licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
Ma i giudici replicano che «il licenziamento collettivo non può essere l’occasione per recedere da rapporti di lavoro per ragioni inerenti a uno specifico rapporto, che attengono al singolo lavoratore, eludendo il controllo sul licenziamento individuale».
Il licenziamento dunque è stato ritenuto illegittimo e con profili discriminatori. Il caso non si chiude qui. Il Sait, alla luce del duplice giudizio di primi grado che gli dava ragione, è deciso a ricorrere in Cassazione per confermare la correttezza di una procedura di licenziamento collettivo dolorosa, ma portata avanti con l’accordo di lavoratori e sindacati.
«NOI SEMPRE CORRETTI»
«MA IO VIVO CON 600 EURO»
Un licenziamento dichiarato illegittimo a fronte di 79 andati a buon fine. Per il Sait la delicata partita degli 80 esuberi si è chiusa comunque in modo positivo. «La procedura - sottolinea il direttore generale, Luca Picciarelli - è stata approvata a larghissima maggioranza dai lavoratori; è stato sottoscritto un accordo sindacale firmato dai segretari di tutte le Rsu presenti. C’è un unico procedimento civile aperto. Nel caso specifico siamo convinti di aver agito correttamente, come sancito due volte in primo grado con rito Fornero da sentenze a noi ampiamente favorevoli. Ora la corte d’appello ha ribaltato quel giudizio: sono cose che possono accadere. Ricorreremo in Cassazione non per una volontà vessatoria nei confronti del lavoratore, ma perché siamo sicuri di aver condotto quella delicata procedura di licenziamento in modo corretto e rispettoso di tutti i lavoratori coinvolti».
Il ricorrente, invece, punta ad un rapido reintegro: «Prendo circa 600 euro al mese di disoccupazione e devo pagare un affitto, un piccolo mutuo e inviare dei soldi alla mia famiglia. Ho tre figli, ma hanno dovuto fare rientro nel nostro Paese d’origine perché dopo il licenziamento non ero più in grado di mantenerli. Ora spero che possano tornare in Italia dove vivo, sempre lavorando, da 30 anni».