Shopping con la carta della madre In 6 mesi acquisti per 2.500 euro
Dai libri all’oggettistica per la casa. In sei mesi una trentenne trentina avrebbe fatto acquisti per ben 2.500 euro utilizzando la carta di credito della mamma. Peccato che - almeno secondo l’accusa - lo shopping fosse stato fatto all’insaputa del genitore che, di fronte a quegli addebiti sul conto corrente, ha sporto denuncia. Alla polizia giudiziaria è bastato seguire la tracciabilità dei pacchi per arrivare a casa della figlia, che è così finita a processo con l’accusa di indebito utilizzo di carte di credito. Nel frattempo mamma e figlia si sono chiarite, quest’ultima ha restituito buona parte della somma, ma questo non le ha evitato una condanna a 8 mesi e 300 euro di multa (pena sospesa). La difesa, affidata all’avvocato d’ufficio Michele Busetti, dovrà decidere se presentare appello.
La vicenda finita in Tribunale risale al 2018, per esattezza al periodo tra il gennaio e il giugno di due anni fa. Mamma e figlia alternavano periodi di convivenza ad altri in cui la giovane abitava presso la propria abitazione. Sta di fatto che, la madre, consultando l’estratto conto, si era trovata con una serie di ammanchi riferiti ad acquisti on line. Ordini che la donna non aveva però mai effettuato. Da qui la decisione di sporgere denuncia, dal momento che non era stata lei a procedere con gli acquisti. Ma dietro lo shopping “non autorizzato” non c’era qualche anonimo truffatore che, dopo avere carpito le sue credenziali in modo fraudolento, si era dato ai pazzi acquisti. Le indagini effettuate dalla polizia giudiziaria hanno permesso di ricostruire che, destinataria degli ordini, era la figlia, che si è trovata così imputata per l’indebito utilizzo della carta di credito del genitore.
Va detto che, già nel corso della prima udienza, la mamma aveva detto che voleva rimettere la querela, spiegando di avere risolto la questione con la figlia, che in effetti ha già restituito circa 1.700 euro e si è detta pronta a saldare l’intero “conto”.
Una ricomposizione della vicenda familiare che non ha però bloccato l’iter penale, visto che il reato è procedibile d’ufficio. Dunque il processo è andato avanti. In aula la difesa ha dato battaglia sulla sussistenza del reato, rilevando in primis che non vi fosse la certezza della prova che i beni erano stati acquistati dalla giovane, dal momento che la merce non era mai stata né trovata né sequestrata a casa della ragazza.
Come dire che qualcun altro avrebbe potuto sostituirsi all’imputata, facendo apparire le sue credenziali come soggetto acquirente, dal momento che mancherebbe il riscontro definitivo che lo shopping fosse riconducibile alla giovane. Ma secondo il legale si sarebbe dovuto tenere conto anche della situazione di convivenza (almeno per determinati periodi) e della relazione tra madre e figlia: la 30enne avrebbe in sostanza potuto sentirsi implicitamente autorizzata ad usare la carta di credito della mamma, forse dopo avere ricevuto le credenziali dalla stessa donna, dal momento che non viene contestata alcuna sottrazione fraudolenta dei codici.
Da qui la richiesta di assoluzione per non avere commesso il fatto. Ma la difesa ha invocato anche l’applicazione dell’articolo 131 bis, ovvero della causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto prevista per i reati che abbiano una pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni laddove non si sia di fronte ad una condotta abituale e il danno sia esiguo. Una tesi che, evidentemente, non è stata però accolta dal Tribunale: il giudice Marco Tamburrino ha infatti condannato la giovane a otto mesi e 300 euro di multa (pena sospesa).