Rossi al Festival dello sport di Trento un anno fa spiegava l'amore per la maglia azzurra

di Redazione Web

Poco più di un anno fa Paolo Rossi era sul palco del Festival dello sport di Trento.

Accanto ad altri protagonisti del calcio italiano, "Pablito" aveva condiviso sia i suoi ricordi sia la sua visione dello sport.

Nella serata del Festival, Rossi aveva spiegato, fra l'altro, quanto fosse denso di significato, per lui, indossare la maglia azzurra, rappresentare un'intera comunità nazionale.

Ecco come l'Adige raccontò quella serata del 13 ottobre 2019 (testo di Matteo Lunelli, foto di Alessio Coser)


 

Pochissimi in tutto il mondo possono dire di averla alzata: e non c’è Champions che tenga (come ha detto Bobo Vieri sabato sera) perché la Coppa del Mondo è il sogno di ogni calciatore. Sul palco dell’Auditorium c’era chi l’ha alzata. Paolo “Pablito” Rossi, prima di tutto. E Luca Toni. Poi chi ci è andato vicinissimo: Arrigo Sacchi, allenatore nei Mondiali di Usa 1994 persi in finale ai rigori con il Brasile. E in quella squadra c’era anche Antonio Conte. Che poi, vent’anni dopo, in azzurro ci tornerà nelle vesti di allenatore: per lui un Europeo terminato ai quarti di finale contro la Germania ai rigori nel 2016, una sconfitta che fece piangere tutta Italia, perché tutta Italia si era innamorata di quella nazionale tutto cuore.

Quella mitica Coppa il 14 ottobre 2019, per il Festival dello sport, era a Trento. Bella, luccicante, ammaliante. E per un’ora, prima dell’inizio dell’incontro, in tantissimi del pubblico sono scesi per fotografarla o farsi un selfie.



Tantissimi, all’Auditorium, gli aneddoti. A partire da Paolo Rossi, che ha capito molti anni dopo quanto la sua tripletta contro il Brasile nel 1982 abbia fatto soffrire quel Paese.

«In un taxi a San Paolo il signore guardò dallo specchietto e chiese “Paolo Rossi”. Io sorrisi: “Sì sono io”. Beh, non voleva un autografo, anzi mi disse: “Scendi subito dal mio taxi”. Quella partita la ricordano bene.
Recentemente sono stato a casa di Zico e ne abbiamo parlato, ma lui non riesce ancora a capire come sia successo, non lo ha ancora metabolizzato.
Io provo a spiegargli, ma non se ne capacita».

Racconteranno di averla vista da vicino, ben sapendo che alzarla è un affare per pochi.

Si parlava di nazionale al Festival, ma in realtà si è parlato di Coppa del Mondo. Perché alla fine, dal bambino che inizia all’adulto che si trova con gli amici il venerdì sera a tirare quattro calci fino al campione ammirato e idolatrato, tutti sogniamo quella Coppa. Per arrivare ad alzarla, o comunque a scendere in campo con l’obiettivo di vincerla, il passaggio necessario è quello di arrivare in nazionale. Di indossare la maglia azzurra.

«In quel momento si rappresenta un Paese - ha esordito Arrigo Sacchi - e si dà il massimo, si è pronti a morire per onorare quella maglia. Poi i Mondiali uniscono: è l’unico momento in cui i tricolori sventolano dalle case e l’unico in cui ci si dimentica se quel giocatore è dell’Inter o del Milan o della Juve»
«Si corona un sogno quando arriva la prima convocazione - gli ha fatto eco Antonio Conte - e quando si sente l’inno è pura magia.
E devo dire che da Ct la responsabilità è ancora più pesante».



Se anche Luca Toni ricorda l’inno come il momento che sa dare una carica agonistica più forte di mille parole, Paolo Rossi ha rivissuto il suo esordio a Liegi nel 1977. Da quel momento di strada ne ha fatta molta, fino ad arrivare a far piangere di gioia tutta Italia nell’estate del 1982.
Mister Conte ha ricordato che lui alla nazionale ha ?lasciato? due gambe. «Ho avuto due gravi infortuni in maglia azzurra. Uno contro il Galles, si giocava a Perugia. E un altro ancora peggiore, quando nei quarti dell’Europeo contro la Romania Hagi mi ruppe la caviglia con un intervento. Ma per la nazionale questo e altro».

Un’Italia del calcio che sta riprovando ad alzare la testa. Dopo la mancata qualificazione ai Mondiali in Russia la panchina è stata affidata a Roberto Mancini. Che, in collegamento da Roma, ha risposto a Sacchi, che aveva sottolineato come in serie A e anche nei settori giovanili ci siano troppi stranieri in campo.
«In realtà ho sempre pensato che in italia i giocatori ci siano e ci siano sempre stati. Magari ci vuole più pazienza, ma i talenti non sono mai mancati, anche in epoche diverse. Certo, la media di italiani in campionato è sempre bassa, intorno al 34%, ma gli ultimi risultati che abbiamo avuto dimostrano che sono ragazzi pronti anche per palcoscenici importanti, pur con tanto lavoro davanti da fare».
Appunto, il lavoro. Nei club è un conto, con la nazionale è un altro.

«Io chiesi un mese - ha ricordato Conte - per lavorare con quel gruppo. Riuscimmo a creare un gruppo unito, 23 uomini che si aiutavano».
Spazio per l’estetica, anche se ci si chiama Arrigo Sacchi, ce n’è poco. «Lo ammetto: anche il mio Rimini, oltre ovviamente a Parma e Milan, giocava meglio della mia Italia. Ma è ovvio: nei club facevo 300 allenamenti in un anno, in nazionale al massimo 30».

Leonardo Bonucci, anche lui in collegamento da Roma con Mancini, con una frase ha spiegato perfettamente come si possa colmare quel gap di allenamenti: «Noi non siamo solo una selezione, ma siamo una squadra. Per questo stiamo vincendo. Come eravamo una squadra, anzi una famiglia, con mister Conte»
Il presidente della Figc Gabriele Gravina ha aggiunto che «questo gruppo è riuscito a dare energia, e non era facile dopo la depressione post sconfitta contro la Svezia».

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