«Da bambino ad Auschwitz diventai un numero». Living Memory: la testimonianza online di Oleg Mandić, deportato perché figlio di partigiani
“Internato all’età di 11 anni, in mezza giornata persi il mio nome e divenni un numero”.
Oleg Mandić è l’ultimo bambino di Auschwitz: fu lui a chiudere i cancelli del campo di sterminio il 27 gennaio 1945 dopo 8 mesi di prigionia.
La sua testimonianza, spiega una nota della Provincia, è stata ascoltata questa mattina da oltre 3.000 studenti e studentesse trentini e circa 5.000 dalle scuole del resto d'Italia, collegati con le loro classi allo streaming proposto nell’ambito di Living Memory, il Festival della Memoria creato dall’associazione Terra del Fuoco Trentino in collaborazione con la Fondazione Museo storico del Trentino e sostenuto dalla Provincia autonoma di Trento.
Il testimone degli orrori nazisti, in collegamento dalla sua abitazione in Croazia, ha lanciato un appello ai giovani per contrastare i negazionisti della Shoah e interloquito con la giornalista Denise Rocca - che ha anche posto alcuni interrogativi formulati dai ragazzi - e il direttore della Fondazione Museo storico, Giuseppe Ferrandi. Stasera alle 20.30 attraverso il sito sarà trasmesso in diretta un nuovo incontro con Mandić, dedicato a tutta la popolazione.
“Quando arrivai ad Auschwitz avevo già compiuto i 10 anni, ma rimasi comunque con mia madre e la nonna nell’area femminile.
Dopo due mesi venni ricoverato nel reparto ospedaliero dell’angelo della morte Josef Mengele, dove rimasi fino alla liberazione da parte dell’Armata rossa. Qui trascorrevo il tempo realizzando fiori con le bende di carta crespa” ha raccontato Oleg, che sull’avambraccio sinistro ha tatuato il numero IT1894888.
Sulla casacca che gli fecero indossare, era stato cucito un triangolo rosso con la punta rivolta verso il basso, che identificava i prigionieri politici.
Il padre e il nonno di Mandic, che da bambino viveva a Fiume, al momento dell’occupazione tedesca si erano infatti uniti ai partigiani jugoslavi.
Mandić ha raccontato di come, caricato su un treno merci con altre centinaia di persone, non sapesse quale fosse la sua destinazione: “Il viaggio durò tre notti e due giorni. L’unico modo per chiudere gli occhi e riposarsi era appoggiare la testa sulla spalla del vicino. Aprirono i portelloni solo due volte per togliere la paglia infangata e darci dell’acqua: leggemmo la scritta Auschwitz, ma nessuno di noi sapeva cosa fosse”.
La gente dell’epoca pare non fosse a conoscenza dell’esistenza dei campi: “Eppure – ha evidenziato il direttore Ferrandi – difficilmente un’organizzazione tanto complessa poteva essere tenuta nascosta. I nazisti hanno riadattato alle loro esigenze un sistema già esistente prima della Grande Guerra, estremizzandolo e rendendolo di carattere industriale”.
Pochi pazzi e tanti obbedienti hanno agito secondo le prescrizioni del sistema: “Gli unici militari tedeschi che ho visto al campo erano i medici: il campo di sterminio era di fatto autogestito, tanto che anche i kapò erano detenuti. Lo stermino del popolo ebraico fu deciso dal Ministero della salute di Berlino valutando i sistemi meno onerosi e più efficienti, affinché i detenuti morissero di fame e malattia, nel giro di 7 mesi: una vera pianificazione industrializzata della morte” sono state le parole di Mandić.
La quotidianità all’interno del campo era segnata dall’appello all’esterno delle baracche, dal lavoro sfiancante fino al rancio della sera: “Il lavoro per la stragrande maggioranza dei detenuti consisteva nel trasportare grosse pietre da un mucchio a un altro, percorrendo una distanza di circa 5-600 metri. Un’occupazione pensata per tenerci occupata la mente e affaticare il corpo fino alla morte naturale. Ogni giorno ad Auschwitz perdeva la vita oltre un migliaio di persone. Qui non c’era spazio per l’amicizia”.
Oleg Mandić ha indicato nei ragazzi che lo hanno ascoltato i nuovi testimoni della memoria: “Raccontare ad altri ciò che avete ascoltato sarà la vostra missione. Sarete chiamati ad opporvi alle chiacchiere di chi si dichiara negazionista dell’Olocausto e ad abbattere il muro dell’indifferenza”.