Guerra in Ucraina, le riflessioni e il dolore di una studentessa trentina di 23 anni: “Un grande senso di impotenza”
“Vorremmo che qualcuno ci spiegasse che cosa possiamo e dobbiamo fare per essere davvero d’aiuto, per costruire davvero la pace, ma anche – e forse soprattutto, il che ingenera un ulteriore senso di colpa – per essere pronti a rispondere a quella domanda che, già lo sappiamo, i nostri figli e le nostre figlie ci rivolgeranno: tu dov’eri?”
LA RACCOLTA Aiuti trentini ai profughi ucraini: già partiti 19 carichi
IL PUNTO Un'altra notte di devastanti bombardamenti russi
Giovedì è scoppiata la guerra in Ucraina. Quella sera sono andata ad ascoltare un concerto di musica classica, Brahms per la precisione, e nel tragitto abbiamo parlato alternativamente di amici, di guerra e di gite in montagna. Il venerdì pomeriggio l’ho passato a impastare e sfornare biscotti e la sera sono scoppiata a piangere sul divano, di fronte al telegiornale, dove la questione ormai giustamente occupava l’intera edizione.
Domenica sono andata a slittare tutto il giorno, con amici, su una pista di 10 km – numericamente la stessa distanza che, ho scoperto poi, la figlia della “badante” ucraina di una mia parente ha percorso in quattro giorni per raggiungere la Polonia in macchina, con tre bambine piccole al seguito. Io 10 km me li sono mangiati in mezz’ora su uno slittino, gridando dal brivido dell’eccitazione, per quattro volte di fila in una giornata. Il giorno dopo, come ogni lunedì, sono andata ad aiutare un ragazzo coi compiti di tedesco.
La sera a lezione di Zumba l’insegnante ha raccolto coperte e beni vari indirizzati all’Ucraina. Aveva, come sempre, dei polsini di spugna, solo che questa volta, ci abbiamo fatto caso tutte, erano uno blu e uno giallo. Tornata, dopo una doccia calda ho guardato un paio di puntate di una serie Netflix. Mercoledì c’è il sole, e anche se sono cinque gradi sotto zero carico gli sci in macchina. Incontro una vecchia conoscenza alla biglietteria del centro fondo, facciamo quattro chiacchiere e mi regala una cioccolata, che infilo volentieri in tasca preoccupandomi di quale sarà il momento giusto per mangiarla, tra una spinta e l’altra, per non appesantirmi e al tempo stesso per non andare in calo di zuccheri.
E mentre sono in mezzo al bosco da sola – è pur sempre un mercoledì mattina qualunque – ripenso a questi ultimi giorni e li vedo come un’assurda e schizofrenica sequenza di sentimenti contrastanti che fatico ad inquadrare, perché, presumo, non li ho mai provati prima. È questo, penso, il disagio della mia generazione, nata troppo tardi per vedere o per ricordarsi della guerra nell’ex Jugoslavia, ma talvolta abbastanza sensibile da cercare informazioni, immagini.
Una generazione cresciuta a percorsi educativi sulla memoria, sull’importanza della democrazia e della libertà, che hanno reso in noi talmente solida la convinzione che nella nostra vita non avremo mai assistito ad una guerra nel senso novecentesco del termine – la sola idea, fino a una settimana fa, poteva persino farmi ridere –, che ora questa realtà ci lascia totalmente sgomenti. E proprio il fatto di essere stati a lungo sensibilizzati sui temi della pace, della giustizia, della libertà, ci carica di una responsabilità che pensavamo di saper portare, ma che adesso, di fronte ai fatti veri e non solamente alla memoria di essi, ci fa sentire in imbarazzo e in colpa.
Sappiamo perfettamente che la guerra non può lasciarci intoccati, sentiamo che le cose che facevamo fino a pochi giorni fa non hanno più granché senso, o comunque assumono un peso e un significato diverso rispetto a prima, ma non sappiamo come muoverci su questo crinale col pericolo di cadere da un lato nello sterile struggimento per una situazione che non possiamo controllare e dall’altro nella più totale e disumana indifferenza.
Siamo toccati dalle immagini che passano in televisione, ma mentre abbracciamo il cuscino del divano ci sentiamo in colpa perché siamo al sicuro, al caldo e mangiamo, e allora a quale titolo ci addoloriamo tanto per una guerra che nella stretta quotidianità non ci riguarda (ancora) direttamente?
Siamo ben contenti di portare coperte, scatolette di tonno e pannolini a chi poi si occuperà di recapitarli in Ucraina, condanniamo quella retorica che giudica i bisognosi di aiuto in base al colore della pelle e degli occhi, ma ci sentiamo ipocriti perché in un angolo della memoria sappiamo perfettamente che il nostro Paese è letteralmente immerso in un mare in cui da anni c’è bisogno di aiuto e forse allora non siamo stati così pronti a mobilitarci.
Siamo combattuti tra il valore simbolico di gesti come la modifica dei colori dell’immagine del profilo, la condivisione di contenuti, il digiuno, la partecipazione a manifestazioni per la pace, e il sospetto che siano atti inutili e non davvero incisivi su come poi andranno le cose. Ci sentiamo impotenti, non sappiamo bene che cosa aspettarci e abbiamo paura.
Vorremmo che qualcuno ci spiegasse che cosa possiamo e dobbiamo fare per essere davvero d’aiuto, per costruire davvero la pace, ma anche – e forse soprattutto, il che ingenera un ulteriore senso di colpa – per essere pronti a rispondere a quella domanda che, già lo sappiamo, i nostri figli e le nostre figlie ci rivolgeranno: tu dov’eri?
Aurora Martinelli - studentessa di 23 anni