Vende canapa light, imprenditore trentino assolto. Per il giudice non è spaccio: «Effetto drogante non provato»
La sostanza arrivava da una azienda certificata e la compravendita era avvenuta alla luce del sole. Il pm aveva chiesto un anno di reclusione, ma la sentenza stabilisce che «il fatto non sussiste»
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TRENTO. La cannabis, del peso di un chilogrammo, era stata acquistata presso una azienda italiana certificata da un imprenditore trentino che fino a qualche mese fa commercializzava prodotti da fumo e derivati.
La fattura testimonia che la compravendita di sostanza del tipo canapa light è avvenuta alla luce del sole: la merce è tracciabile e sull'importo versato sono state pagate regolarmente le tasse.
Eppure l'imprenditore, che ora si dedica ad altra attività, ha rischiato in abbreviato un anno di reclusione e 2.300 euro di multa - questa la pena chiesta dal pubblico ministero - per cessione di stupefacenti, per aver venduto il chilo di sostanza ad un cliente. Il suo legale, l'avvocato Matteo Livio, ha chiesto l'assoluzione. Per il giudice «il fatto non sussiste»: l'imprenditore è stato assolto con formula piena, come argomentato nelle 9 pagine della sentenza depositata nei giorni scorsi.
Non essendoci una prova sull'effetto drogante della cannabis, non si può dimostrare che l'imputato con la sua condotta ha messo in pericolo la salute pubblica. Si tratta di una delle prime sentenze a livello nazionale con assoluzione con formula piena per mancanza - o, meglio, non provata esistenza - di effetto psicotropo della sostanza.
La canapa light, acquistata esattamente tre anni fa nel primo periodo del Covid, e confezionata in quattro buste sottovuoto da 250 grammi l'una, era stata trovata a casa di uno dei clienti dell'imprenditore. Era scattato il sequestro ai fini delle analisi.
La relazione tecnica dell'accusa aveva evidenziato che il principio attivo (Thc) era inferiore a 0,6% e che si trattava di «infiorescenze di canapa da fibra».
Se per il coltivatore la normativa non rileva alcuna responsabilità penale nel caso di canapa con contenuto di Thc inferiore a 0,6%, per chi commercializza il prodotto la situazione è differente: le Sezioni Unite della Cassazione affermano che di tale sostanza va valutata «l'efficacia drogante o psicotropa, secondo il principio di offensività».
Semplificando: se non ha un effetto di "sballo", allora non è stupefacente e dunque non c'è spaccio.
«L'offensività penale non deve essere solo formale, ma anche sostanziale» scrive il gup Gianmarco Giua nella sentenza. Viene ricordato il disegno di legge 437 dell'attuale legislatura, sulle modifiche alla legge 2 dicembre 2016, n.242, in materia di promozione della coltivazione e della filiera agroindustriale della canapa: «La "cannabis leggera" - si legge - non ha effetti psicotropi (creati da alti livelli di Thc), ma fumata, avvertono gli esperti, è comunque dannosa per la salute. Inoltre, se è pur vero che il limite previsto dalla legge per il principio del Thc è di circa lo 0,5%, tale percentuale potrebbe produrre ugualmente effetti psicotropi, semplicemente aumentando la dose dei prodotti consumati».
L'effetto drogante, dunque, viene collegato alla quantità di dosi consumate. Come con la vendita al pubblico di alcolici: il problema riguarda più la condotta del compratore che quella del venditore. Il punto dunque è questo: la sostanza che l'imprenditore ha venduto al suo cliente ha o no un effetto drogante? L'imputato ha leso o messo in pericolo la salute pubblica?
«Gli accertamenti tecnici della Procura sono del tutto neutri - scrive il giudice in riferimento al Thc inferiore al 0,6% - In buona sostanza l'effetto drogante della sostanza in esame non è stato provato: vi è la mera analisi tecnica della percentuale di Thc da cui non è dato trarre conclusioni certe».
L'effetto drogante della sostanza non può essere considerato nullo in quanto è presente anche se in minima parte il principio attivo: si può considerare un effetto dose-correlato.
«In assenza di una prova dell'accusa sulla portata specifica dell'effetto drogante della cannabis venduta dall'imputato - è il ragionamento del giudice - non è stato dimostrato che il comportamento dell'accusato sia stato in grado di mettere, concretamente, in pericolo la salute pubblica». Il fatto, dunque, non sussiste.