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L'Upipa attacca Tonina: l'invecchiamento in Trentino è uno tsunami, servono nuove Rsa

Punto per punto, l’ente gestore di 50 Rsa trentine ribatte all’assessore: personale, domiciliarità, nuove strutture, ecco perché occorre cambiare rotta. Subito

L'ASSESSORE Servono nuove Rsa? Non è la soluzione
STATISTICA In pochi anni triplicheranno gli over 90
UPIPA Pochi posti adesso, occorre prepararsi per il futuro
ALLARME Crollo verticale delle nascite, il 2023 anno nero in Trentino

TRENTO. La scorsa settimana avevano presentato il loro studio e le loro indicazioni: il Trentino invecchia rapidamente, e servono nuove case di riposo, perché già oggi i posti sono pochi e ci sono oltre mille famiglie in attesa. A loro aveva risposto l’assessore provinciale Mario Tonina, dicendo in pratica che non si può fare, anche perché non c’è il personale. E comunque la Provincia deve fare una ricognizione perché non ha dati certi. 

Ora l’Upipa, l’unione delle case di riposo che insieme alla Spes gestisce praticamente tutte le Rsa, che unisce le 50 Rsa gestite dalle 42 Apsp del Trentino, interviene a seguito delle tante prese di posizione che hanno arricchito il dibattito delle ultime settimane.

La presidente, Michela Chiogna, spiega: «Bene attivare tutte le misure di cui abbiamo letto: dall’invecchiamento attivo alle politiche di rete, da Spazio argento fino all’assistenza domiciliare, ma pensare di affrontare questo “tsunami” demografico senza aumentare il numero di case di riposo e posti letto è, lo dico senza mezze misure, miope. Soluzioni diverse e ulteriori, rispetto alle Rsa, vengono descritte fin dal 2017, quando si iniziò a ragionare di Spazio argento, entro un approccio che vedeva le Case di riposo tra gli attori principali per esperienza, assistenza e comunicazione. Su questo fronte ci siamo anche oggi, ma sia chiaro che non basterà, se non ci saranno nuovi posti letto per rispondere a esigenze, spesso drammatiche, di persone e famiglie».

L’istituto di statistica della Provincia ha reso noto qualche giorno fa che le persone tra i 90 e i 94 anni raddoppieranno entro il 2070, quelle tra i 95 e 99 triplicheranno e quelle oltre i 100 diventeranno ben 7 volte tanto (dunque oltre 7mila): «Numeri ancora maggiori rispetto ai precedenti, già allarmanti, visto che ci sono centinaia di persone in attesa di un posto in Rsa e spesso le loro famiglie vivono veri e propri drammi. Non so se chi ne parla si rende conto di cosa significhi gestire in casa un anziano non autosufficiente, magari con demenza o Alzheimer. Se si pensa all’invecchiamento attivo come soluzione, ci chiediamo: delegheremo ai settantenni il ruolo di badanti di genitori centenari?»

Tonina ha replicato che punterà sulla domiciliarità. Ma l’Upipa si chiede: quale, e fatta come? «Diversi guardano al modello di domiciliarità del sistema danese. Come Upipa lo abbiamo conosciuto da vicino. Lì però si interviene già da quando la persona compie 65 anni, con una specie di “bilancio di salute”: si valuta se il suo appartamento è accessibile, adeguandolo o cambiandolo se del caso; si sostengono le autonomie, insegnando alle persone a utilizzare strumenti e ausili per mantenerle; si promuove la socialità e si combatte la solitudine. È un sistema veramente interessante, ma parte da una preparazione lunga, con aspetti logistici e culturali da costruire nel tempo, con importanti investimenti pubblici».

Se la domiciliarità vuole essere una scelta per dare qualità di vita alle persone e non uno scaricare il problema sulle famiglie, bisogna avere chiaro che richiede un diverso approccio culturale, maggiori investimenti e non produce risparmi di spesa.

Partiamo dal dato logistico. «Quante delle abitazioni dei nostri anziani sono accessibili? Su quante si può intervenire nei fatti, se siamo in condizioni di condominio o di “proprietà mista”? Altrimenti, senza ascensore e con una disabilità fisica, la persona resta “murata” in casa. Abbiamo soluzioni alternative per le case non “sbarrierabili”? La persona anziana è disposta a cambiare casa?

L’altro nodo è il personale. Tonina dice che non ce n’è. Ma «A domicilio ne servirà di più che in Rsa. Spieghiamoci meglio. A Copenaghen le persone assistite a domicilio beneficiano in media di 3,5 ore di supporto a settimana. Oggi, nelle nostre case di riposo, la presenza del personale equivale a circa 2,8 ore a settimana per persona. Con una sostanziale differenza: in Rsa infermieri, oss e medico sono presenti per tutto il tempo nel luogo di vita della persona. A domicilio, le 3,5 ore richiedono in più i tempi di spostamento e chi vive da solo, nel resto del tempo, è totalmente privo di assistenza. Questo si collega a un ulteriore tema: se non si possono aprire nuove case di riposo perché manca il personale: con quali professionisti si pensa di far funzionare l’assistenza a domicilio? Ricordiamo che, oggi, oltre il 70% di ospiti delle Rsa non deambula, è incontinente spesso con gravi forme di demenza: possono davvero bastare 3 ore e mezza al domicilio in queste condizioni per chi sarà escluso dalle liste? Secondo noi no».

Infine viene la cosiddetta “filiera dei servizi”. Bene l’invecchiamento attivo: «ma che aspettative abbiamo? Quante persone riusciranno a rinviare la necessità di assistenza? Sarà un numero significativo? Ridurranno effettivamente la pressione sulle Rsa? A partire da quando?».

Bene la residenzialità leggera (dove ospitare persone ancora in parte autonome), «sono realtà già presenti e funzionano bene, ma non bastano e rispondono a esigenze diverse: chi le indica come soluzioni ignora la gravità delle condizioni di chi entra in Rsa».

Se si vogliono ottenere risultati in grado di tenere insieme qualità della vita delle persone e sostenibilità economica in prospettiva bisogna agire contemporaneamente su tre livelli: promuovere una diversa cultura dell’invecchiamento in chi oggi si avvicina alla pensione; sostenere - nelle autonomie e nelle relazioni sociali - chi si trova in situazioni di potenziale fragilità, senza gravare queste persone dell’assistenza ai loro cari non autosufficienti; dare risposte tempestive (residenziali o di adeguata intensità di cura a domicilio), a tutti coloro che oggi sono gravemente non autosufficienti e totalmente dipendenti dall’assistenza di altri per la loro qualità di vita.

Spessissimo l’Alto Adige viene indicato come modello, per cui: «Dobbiamo pensare che stavolta siano completamente in errore, nella loro strategia di aprire una Rsa all’anno?» Ma creare nuove case di riposo, si risponderà, richiede tempi lunghi. «Eppure Upipa ha dimostrato che nelle nostre Rsa potrebbero essere autorizzati, oggi, 200 posti in più: l’equivalente di 3 case di riposo, per cui possiamo iniziare da quelli e progettare una nuova Rsa da aprire da qui a 4 o 5 anni».

Ci sono cinque misure puntuali che andrebbero messe in campo subito.

Primo: autorizzare i 200 posti letto già utilizzabili di Rsa;

secondo: attivare e finanziare il parametro mobile, consentendo alle Apsp di aumentare, in prospettiva, la dotazione di infermieri e oss in relazione alla gravità dell’utenza;

terzo: potenziare il servizio medico, garantendo le sostituzioni delle assenze per ferie e malattie; quarto, promuovere le tecnologie che liberano tempo per l’assistenza, come il deblisteraggio automatizzato dei farmaci;

quinto: attivare la formazione duale, per gli Oss, nelle strutture, in modo da favorire l’ingresso nel mondo del lavoro.

«In conclusione devo dire che sorprende non poco la prospettiva, espressa da alcune voci, del “no” a nuove Rsa. Mi sia consentita una metafora: fronteggiare l’attuale tendenza demografica con “invecchiamento attivo” e “domiciliarità” è come trovarsi in spiaggia e, di fronte a dieci persone che stanno annegando, proporre corsi di nuoto per chi è ancora a terra».

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