«Ombre - di guerra e di disperazione, come 100 anni fa» I migranti di oggi e quelli di ieri nella mostra di Salomon e Filippini
La mostra «Ombre - di guerra e di disperazione, come 100 anni fa» è a Palazzo Trentini di Trento e chiuderà il 23 aprile
Hanno preso su e sono andati a cercarli. A fotografarli e a sentirli.
Due giornalisti, due reporter trentini in questo caso, Franco Filippini e Giorgio Salomon. Hanno cercato e trovato una parte di quell’onda di migranti che sta cercando di entrare in Europa e da qualche tempo è contrastata in molti modi, ultimamente anche brutali, sulla cosiddetta «rotta dei Balcani».
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Non avevano committenze, non scrivevano e fotografavano e filmavano per nessuno. Ma hanno fatto i reporter, come è nel loro Dna da una cinquantina d’anni. Pensavano di comunicare alla gente non una verità, ma delle immagini. E quando sono rientrati hanno messo insieme una mostra fatta di immagini scattate oggi, ieri e di ... cent’anni fa quando la Grande Guerra costrinse decine di migliaia di trentini ad abbandonare in fretta e quasi senza nulla le loro case, si vorrebbe dire «deportati» dagli austriaci (e, in minor numero, dagli italiani) in campi in cui avrebbero sofferto, patito la fame, e in molti sarebbero morti.
Ecco, qui sta l’unico messaggio dell’opera di Filippini e Salomon: accostando le fotografie raccolte in Croazia e Slovenia solo qualche settimana fa (più un numero minore scattate ai tempi del primo arrivo degli albanesi a Brindisi, il 7 marzo 1991, e altre girate ai tempi della fuga dal Kosovo) a quelle dei campi austriaci in cui furono costretti i trentini, si vuole solo dire: noi e loro, la stessa cosa in tempi diversi. Uno stimolo al pensiero, quindi.
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La mostra è a Palazzo Trentini di Trento e chiuderà il 23 aprile. Si intitola «Ombre - di guerra e di disperazione, come 100 anni fa». Con Filippini e Salomon hanno collaborato l’architetto Manuela Baldracchi dello Studio Arte Architettura e Vincenzo Passerini che ha curato con Filippini i testi (catalogo edito, per volere del Consiglio provinciale di Trento, da Publistampa, le foto storiche come gentile concessione di vari enti, italiani e stranieri).
Una differenza, tra l’ieri e oggi balza agli occhi. La maggioranza di quei migranti sulla rotta dei Balcani è vestita bene, o almeno abbastanza bene. Si sa, ci sono molte organizzazioni (ma anche privati cittadini) che stanno cercando di portare la loro solidarietà a quella gente, che la attendono ai confini, sulla strada. Che distribuiscono abiti, cibo, acqua. Quasi sempre gente generosissima, anche se talvolta finanziata da quegli stessi governi che poi ai confini mettono il filo spinato.
I nostri della Grande Guerra, invece, erano dignitosi ma vestiti poveramente, a volte di qualche straccio. Per il resto le facce riprese da Salomon dicono la stessa tristezza, tensione ed apprensione, talvolta paura, che pervadeva gli animi e gli occhi degli sfollati trentini. Puzzano i migranti di oggi, dopo attese di settimane ai confini di Grecia, Macedonia, Croazia, Slovenia, Austria o Ungheria? Sul volto dei poliziotti ci sono le mascherine, le garze bianche. Sì, la disperazione puzza.
Bambini, allora molti, bambini, oggi molti. Eravamo un popolo di contadini e loro sono popoli di contadini o di periferie urbane. Mamme nel 1915, mamme nel 2015: «Ma bisognava andare» (da una lettera di Enrica Capra Baitel partita nell’agosto del 1915 da Scurelle).
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Morivano i bambini a Mitterndorf: 443 il primo inverno, 875 fino alla fine. Il 45,7% di tutti i profughi. Oggi i bambini costituiscono il 52% dei 6 milioni di persone costrette da guerra e penuria a lasciare le loro case.
E lo guardano quel poliziotto con la garza su bocca e naso. Quell’europeo. Ne hanno evidentemente timore. «In questo malaugurato paese nessuno ci vuol bene» (Giuseppina Filippi Manfredi, luglio 1915).
Ci invadono. In Italia nel 2013 ne sono giunti 153.000, in Trentino 949 sino ad oggi.
E come li accogliamo? Giorgio Salomon che con macchina fotografica o cinepresa è stato in Afghanistan, Iraq, Siria, Africa e altro, presenta anche le foto del 1991, a Brindisi. Quegli albanesi che oggi da noi lavorano, hanno ristoranti e aziende edilizie, sono operai ma anche ballerini e artisti, li trattammo peggio che a Mitterndorf: lasciandoli sotto il sole cocente al porto. Come appestati che ci guardavano con meraviglia: pensavano che l’Italia sarebbe stata quasi una madre per loro. Macché, bottigliette d’acqua al volo e la notte sul cemento. Poi l’animo italiano (del Sud) vinse alfine.
In cammino. Pensiamo solo ai siriani: 261.000 morti dal 2011 al 2015, 4 milioni di espatriati su 23 milioni di abitanti, altri 8 milioni sfollati all’interno del Paese.
Scrisse Alcide Degasperi sui nostri sfollati, del 1915: «Evacuati, instradati, perlustrati, accasermati, come se non avessero una propria volontà, come se non avessero alcun diritto». Cercavano, quelli, e cercano, questi, quattro stracci, un pane e una casa. È assolutamente legittimo ritenere che non debbano arrivare in milioni, tutti e subito: ma si deve agire per aiutarli, tutti e subito, qui o là. Ce lo chiede l’intera storia della nostra civiltà. Europea. Forse, vogliono dire (anche) questo Franco Filippini e Giorgio Salomon.
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