Francis Ford Coppola ri-presenta Apocalypse Now e parla dell'atteso Megalopolis
Apocalypse Now ha ancora qualcosa da dire, anzi nel «Final Cut» restaurato esprime al meglio il suo tema, «la moralità», con un’eredità cinematografica che il suo papà Francis Ford Coppola vuole infondere anche al progetto personale più ambizioso, più che mai in fieri: la saga Megalopolis che, in cantiere da decenni, è in attesa di coinvolgere nuovi «pionieri» del cinema, attori e finanziatori capaci di affidarsi al rischio e alla scoperta di orizzonti inattesi e imprevisti.
Il maestro del cinema parla da Bologna, tra gli ospiti più attesi della 33/a edizione del festival «Il Cinema Ritrovato» dove è intervenuto in prima persona per l’anteprima europea - proiettata in piazza Maggiore - di «Apocalypse Now-Final Cut», che la Cineteca di Bologna distribuirà nelle sale italiane in autunno. Coppola trasmette il suo grande rispetto per quella storia del cinema di cui è uno dei maestri indiscussi e, nonostante gli 80 anni da poco compiuti, mantiene uno sguardo più che mai lucido sulle sfide del momento, da quelle tecnologiche col digitale e i «piccoli schermi» emergenti, al «mercificio» delle major cui riserva stoccate senza indulgenza.
Parla di Apocalypse Now, del fatto che il Final Cut sia per lui «la versione migliore» del capolavoro. Ricorda gli anni della produzione, quando i figli gli facevano compagnia sul set con Sofia bambina che già «respirava» cinema e si faceva cucire i vestiti per le bambole dalle sarte. Un film che gli «parlava» e che gli ha permesso di percorrere strade senza conoscere la meta.
Operazione «che può spaventare» ma che per Coppola rappresenta l’essenza stessa della vita. E per Megalopolis è un pò così. «Ho delle idee - dice - vedremo se riusciremo a svilupparle». Nel cinema come nella vita «cerco tutte le avventure possibili senza necessariamente sapere se ci sarà un happy ending, anche se la speranza è che alla fine l’happy ending arrivi». I fan, pazientemente, aspettano.
Coppola non risparmia critiche al cinema moderno, che definisce «molto industriale« e che al pari di altre industrie - come quella alimentare» - punta a far soldi con film«distribuiti in tutte le salse, con i soliti supereroi». Un’arte che il maestro definisce «malata». Sintomo di quella spinta a cercare la felicità nella ricchezza che contagia anche la società, in particolare quella americana dove c’è «un governo assurdo» e dove oltre ad avere «grossi problemi con le armi» c’è un problema più latente di «salute mentale».