La lotta del Welfare contro il coronavirus
Esce oggi in formato ebook per le edizioni Erickson un libro di Fabio Folgheraiter, intitolato significativamente Welfarevirus (pagine 144, 2,99 euro), il cui ricavato sarà dato interamente in beneficienza nell’ambito della raccolta fondi «aiutiamo chi ci aiuta» che Erickson ha attivato per l’ospedale Sacco di Milano. L’autore riflette sulla battaglia che si sta combattendo con il coronavirus, che a suo avviso è la battaglia di tutti per il Welfare.
Folgheraiter, perché questo libro?
La motivazione immediata è stata la necessità di tenere un contatto con gli studenti in Università nel momento in cui si è capito che il blocco delle attività sarebbe stato lungo. Mi sono messo a stendere perciò degli appunti cercando di collegare i contenuti dei miei corsi (ora sospesi sine die) alla spaventosa realtà che ci sta colpendo. È anche un modo per aiutare i giovani ad elaborare intellettualmente ma anche emotivamente quello che sta succedendo. Per gran parte i miei studenti sono lombardi (tanti bresciani e bergamaschi) quindi sono tutti direttamente o indirettamente colpiti. Ne è uscito un ciclo di agili lezioni sulla battaglia in corso tra il Welfare e Virus, lezioni che forse potrebbero trovare anche l’interesse di un pubblico più ampio.
Una pandemia che può essere occasione per riflettere e cambiare il modo di vivere.
Io credo che quello che ora succede potrà essere compreso a sufficienza solo guardando indietro, quando tutto, speriamo, sarà passato. In questo momento io credo che non stiamo avendo ancora contezza precisa di ciò che sta capitando. Non abbiamo neppure i dati dei contagiati e dei morti. O meglio, abbiamo dati ampiamente sottostimanti (sbagliati cioè). Ci vorrà del tempo per capire la portata del disastro attuale, ma è sicuro che non solo l‘economia, la sanità e l’assistenza ma tutta la nostra cultura occidentale, e la nostra stessa “antropologia”, saranno potentemente scosse. Per gli studiosi ci sarà materia per vedere i problemi e le soluzioni secondo angolature nuove e impensabili.
Lei chiede una nuova alleanza sociale per il welfare.
Più che auspicarla, io credo che si debba constatare persino con commozione che una grande alleanza per la difesa della vita è sotto i nostri occhi da quando il disastro è partito. L’intera società italiana si è attivata straordinariamente in queste settimane. Non solo il welfare combatte per il welfare in questo momento. Non solo i mondi della Sanità (i medici, gli infermieri, gli operatori socio-sanitari) e del Sociale (assistenti sociali, psicologi, educatori, operatori socio-assistenziali, affiancati da tantissimi volontari) si stanno facendo in quattro, andando oltre ogni limite immaginabile. La lotta per la salute è dell’intera società. I sociologi chiamano “welfare societario” questa propensione ad attivare servizi di aiuto travalicando i confini delle istituzioni a ciò formalmente deputate.
Può fare qualche esempio?
Pensiamo al ruolo “sanitario” che stanno avendo le istituzioni pubbliche della sicurezza (protezione civile, esercito, forze dell’ordine); le forze politiche che hanno ridotto le bizze solite e si sono fatte più serie; le fabbriche che si sono riqualificate in pochi giorni per produrre materiali protettivi o respiratori; i tanti medici e infermieri già in pensione che sono rientrati in servizio; le imprese che hanno addirittura anticipato la chiusura imposta dal governo mettendo in ferie o in “lavoro agile” tutti i dipendenti; noi cittadini che stiamo sorprendentemente ubbidendo ai Decreti e stiamo chiusi in casa (quasi) senza fiatare. Anche i bambini, lontani dai loro amichetti a scuola, dai nonni, dal parco giochi, stanno dando un grande contributo alla causa comune. Dall’unità d’Italia, non si è mai vista una disciplina nazionale di tale dimensione.
Non sempre si vede una tale unità d’intenti...
Difficilmente si vede… In un dramma di tali proporzioni, in cui tutti siamo esposti, dal senza tetto a Boris Johnson, dall’anziana in casa di riposo al primario di pneumologia, è più facile trovare unità d’intenti. Normalmente invece la pluralità degli interessi frammenta le società complesse. Questo è fisiologico. La lezione del coronavirus ci apre tuttavia il rimpianto per altre serie questioni che riguardano la vita e la salute di milioni di cittadini italiani e nel mondo, che non vengono affrontate con lo stesso impegno comune. Penso ad esempio a questioni come l’inquinamento da ossido di carbonio o da particolato o da pesticidi o da radiazioni, dove gli allarmi dei medici e le loro statistiche non vengono presi così sul serio né dalla politica né dall’opinione pubblica; le dipendenza da gioco o da alcool e droghe, in cui lo stato oscilla tra la preoccupazione per la salute dei poveri pazienti e la necessità di introiettare le ingente tasse sui loro vizi; sul piano globale, nei paesi in via di sviluppo abbiamo “pandemie” terribili come la denutrizione, o malattie come la tubercolosi che producono morti quanto il coronavirus che però gli stati nazionali e gli organismi internazionali non affrontano in modo compatto. Un po’ si vuole risolvere, e un po’ no. Si tratterebbe sempre di difendere i sacri valori della vita, ma siccome non è la nostra, ci si muove con più calma.
Nella battaglia del coronavirus soffrono di più le persone più deboli, chi già prima erano alle prese con difficoltà e disagi...
Questo è un grosso problema del welfare attuale in effetti. La necessità di aiutare la sanità assorbe tutti gli sforzi e porta a stressare il sociale. Impedire le relazioni vuol dire sconvolgere la vita e le sicurezze delle persone più fragili. I bambini, le persone con disabilità, gli anziani in Rsa, i carcerati, le famiglie senza reddito, le persone esposte a violenza e maltrattamenti in famiglia, le persone senza fissa dimora, eccetera, si trovano a far fronte alle loro difficoltà aggravati però dall’impossibilità o dalla difficoltà di poter contare sulle relazioni di aiuto solite. Nelle case di riposo gli anziani confusi restano senza la vicinanza dei familiari o delle assistenti, e non capiscono cosa succede; i bambini disabili non possono frequentare la scuola o le associazioni o i loro amici o i loro terapeuti; le persone che vivono sole non possono uscire di casa per la messa o per una passeggiata o essere frequentate come prima dagli operatori o dai volontari o dai vicino di casa. E’ una solitudine al quadrato. Per fortuna nelle città si sono un poco rianimate le relazioni di vicinato: nei condomini le persone più fragili vengono, con prudenza e a distanza, tenute d’occhio e aiutate, oppure segnalate ai servizi.
Servizi peraltro che si trovano bloccati, tanti operatori lavorano da casa...
Per le situazioni più consistenti, gli assistenti sociali, gli educatori, gli animatori e gli psicologi non possono incontrare fisicamente le persone per i loro aiuti proprio nei momenti in cui ce ne sarebbe più bisogno. Il paradosso di questa situazione in cui sono “vietate le relazioni” è che per gli operatori sociali vuol dire trovarsi senza il principale strumento di lavoro. È come se a un chirurgo fosse vietato di usare il bisturi. Per fortuna in molte strutture pubbliche e in molte Associazioni di Terzo settore gli operatori stanno inventando modi di relazione più creativi, spesso arrampicandosi sugli specchi pur di rispondere alle esigenze e alle urgenze dei loro utenti. Tanti servizi stanno usando per la prima volta in modo serio i telefonini o i tablet, per il monitoraggio di situazioni delicate in casa, per le comunicazioni o il semplice supporto emotivo.
Lei come sta vivendo questa situazione?
Io personalmente devo dire che sopporto abbastanza bene la situazione, anzi per me avere sempre lunghe ore di tranquillità per scrivere e studiare sarebbe il massimo. Il libro che ho appena scritto è frutto del tempo libero che mi sono inaspettatamente trovato. Comunque, gli impegni esterni incombono sempre. Vengo raggiunto in casa da centinaia di mail e telefonate e riunioni in telematica, devo gestire la didattica a distanza, ecc. Qualche giorno fa ho presieduto una sessione di laurea in cui tutti candidati e tutti i professori della Commissione erano a casa loro in soggiorno o in camera. Una cosa impensabile fino a qualche settimana fa.
E la Erickson come affronta questo periodo? Perché il dopo sarà difficile anche per voi...
È difficilissimo già il presente. Il dopo lo dobbiamo pensare solo con ottimismo. Dobbiamo per forza sperare che le cose vadano meglio di così. Dai primi di marzo le sedi di Trento e di Roma, con le rispettive librerie, sono chiuse. Tutta l’attività di formazione è sospesa e spostata a settembre. Abbiamo rimandato a tempi migliori la pubblicazione di opere già pronte. I pochi settori che funzionano ai soliti livelli sono la formazione on line, la vendita di e-book, e l’editoria finanziata. Per fortuna tanti nuovi autori approfittano di essere a casa per scrivere il libro che magari avevano nel cassetto da anni. Il problema è che tutto il mercato editoriale è in ginocchio. Noi intanto stiamo facendo un bel lavoro di riorganizzazione interna e di ridefinizione delle linee strategiche cercando d’immaginare come evolverà la domanda dei lettori dopo questo disastro. I dipendenti lavorano tutti a distanza, e stanno rispondendo a questa sfida con generosità. Abbiamo tante mamme con bambini piccoli e ovviamente devono barcamenarsi a tenere assieme tutto, lavorando quando i piccoli dormono. Intanto resistiamo in trincea, sperando di non doverci stare per troppo tempo.
E comunque non solo l’editoria, ma tutta la cultura avrà bisogno di un sostegno da parte dell’ente pubblico.
Questo purtroppo lo darei per scontato, anche se si fatica a capire da dove verranno le risorse se il Pil cala e le aziende non sono più in condizione di pagare tasse. In questo momento si capisce meglio l’importanza di un debito pubblico sotto controllo, anche per la fiducia dei mercati e dell’Europa. Speriamo che lo Stato tenga, ma è chiaro che, d’ora in avanti, comunque vada, non potremo più sperperare risorse come abbiamo fatto per i lunghi decenni in cui siamo vissuti in una artificiale bambagia.