Brizzi: "La letteratura di montagna non è più quella di un tempo. Per fortuna".
Gli alpinisti si sono spesso interrogati sull’esistenza di una “letteratura di montagna” come genere a sé. Lo hanno fatto perlopiù in decenni segnati dai racconti di grandi imprese sulle vette del mondo, quando nelle librerie abbondavano le autobiografie degli scalatori e i resoconti delle spedizioni, al tramonto di un mondo ancora confinato entro il sesto grado.
Nel 1985, in in convegno sulla letteratura dell’alpinismo al Museo nazionale della montagna di Torino, Fosco Maraini si era posto il problema in questi termini: «Perché la magnifica montagna non è riuscita a sfociare nel gran fiume della letteratura, mentre il mare sì?» Oltre trent’anni dopo, la montagna è ormai protagonista di tutto rispetto di romanzi e racconti, dai gialli ai romanzi storici, dai noir all’azione. Un universo di titoli in cui si muovono commissari di polizia e donne al fronte, pastori e cacciatori, raccontando avventure e inchieste, storie di amore, di amicizia e di odio. Perché, e in che modo la montagna riversi ora acque così abbondanti nel gran fiume della letteratura, per tornare a Maraini, lo abbiamo chiesto ad Enrico Brizzi, scrittore di successo, gran camminatore e presidente della giuria del Premio Itas giunto quest’anno alla 46ª edizione. Il suo nuovo romanzo, La primavera perfetta, sarà nelle librerie nel marzo prossimo per Harper Collins Italia.
Brizzi, secondo lei che tipo di protagonista è, oggi, la montagna nella letteratura?
«Il primo dato da considerare è l’enorme aumento di titoli legati alla montagna e, più in generale, alla vita all’aria aperta. L’osservatorio privilegiato del Premio Itas del libro di montagna, del quale ho l’onore di presiedere la giuria, non lascia dubbi in proposito: a ogni edizione, il numero dei titoli partecipanti polverizza quello dell’anno precedente. È il segno inequivocabile di una sentita esigenza, almeno da parte della fascia dei lettori forti - che purtroppo in Italia sappiamo minoritaria - di trovare stimoli naturali, oserei dire umani, in un mondo tenuto dall’urgenza e dalla reperibilità 24 ore su 24. In questo senso applaudo alla “rivoluzione dolce” che sta portando tanti di noi a rivedere le proprie priorità, il proprio stile di vita, l’alimentazione e, naturalmente, le letture. A dispetto di tutte le difficoltà che stiamo vivendo, credo che questo sia un momento molto fertile, in cui al consumismo sfrenato si possono oppore dei valori non strettamente politici ma di taglio umano e sociale che ci permetteranno di vivere meglio, o perlomeno - e sarebbe già un trionfo - lo permetteranno ai nostri figli».
Ha senso parlare di letteratura di montagna come un genere a sè?
«La vecchia letteratura di montagna, basata sui récits d’ascension e più in generale sulla narrazione autobiografica di imprese ad alto tasso tecnico, era di fatto un sottogenere che ibridava la letteratura d’avventura con la pubblicistica d’argomento tecnico. Oggi questo genere di testi, ancora popolari quando sono firmati da grandi nomi dell’alpinismo e dell’esplorazione, sono solo una porzione dell’enorme e variegata offerta del “libro di montagna” nel suo complesso. La montagna oggi è un teatro, uno specchio, un campo da gioco... Romanzi autobiografici, fiction pura, monografie sui presepi lignei o sulla gastronomia di una certa valle, studi tecnici, libri per l’infanzia... No, non è un genere a sé, ma un superbo fondale sul quale si possono proiettare tutte le storie del mondo».
Lei che cosa predilige, in questo panorama di parole?
«Sono un lettore onnivoro, e più in generale un feticista dell’arte della stampa: sono cresciuto con romanzi e racconti, ma anche mi beo di fronte alle carte escursionistiche, agli ex libris, ai manifesti».
Lei ama camminare, anche su lunghi percorsi. Vi trova ispirazione per il suo lavoro?
«Negli anni ho imparato ad apprezzare la dimensione della stagionalità, la stessa che ha guidato per generazioni i miei antenati - e quelli di quasi tutti noi - nel ritmo delle loro annate. Autunno e inverno sono perfetti per scrivere, la primavera per tornare a vivere all’aperto e intraprendere nuove imprese. Guerre, pellegrinaggi, matrimoni, tutto ciò che era urgente si faceva a primavera. In questo senso, cerco di arrivare alla consegna e alla revisione dei miei progetti editoriali fra Natale e marzo, così da potermi concedere dei bei cammini in primavera ed estate. Alla luce di quanto detto, ci arrivo ubriaco di consonanti, assonanze da evitare o invece valorizzare, punti a capo e punti e virgola, così lungo i sentieri mi piace tornare analfabeta. È vero però che proprio grazie a questa palingenesi mi trovo a essere più permeabile a nuove suggestioni. Ad esempio l’estate scorsa sono partito da Asiago per raggiungere il Garda attraverso il Pasubio e il Trentino, e sceso coi miei compagni a Rovereto sono tornato a visitare un luogo che amo molto, la Casa-museo futurista di Depero. Va da sé che ne sono nate nuove suggestioni per la scrittura».
L’estate scorsa, forse anche per l’effetto Covid, le montagne italiane sono tornate ad essere mete molto frequentate. Che cosa vi si va cercando, a suo giudizio?
«L’innocenza perduta o mai davvero sperimentata, il volto che non possiamo più carezzare di una persona amata, la gioia adolescenziale dell’avventura, la misura esatta della nostra forza della nostra debolezza, la gioia di stare fra amici, la lezione di scoprirsi minuscoli rispetto a ciò che è eterno, la più ammirevole calma. Tutto ciò, insomma, che fa di noi creature nobili, che non confondono la pace interiore dell’uomo libero con l’umiliante rassegnazione di chi si consegna a una vita da servo volontario».