Morto lo scrittore Boris Pahor, aveva 108 anni: triestino di lingua slovena, testimone degli orrori del fascismo e del comunismo
Più volte candidato al Nobel, era un narratore di portata mondiale, figlio del Carso e della frattura etnica, aveva assistito da bambino al rogo fascista della casa comunitaria slovena
TRIESTE. Il grande scrittore e intellettuale di lingua slovena di Trieste, Boris Pahor, è morto all'età di 108 anni.
Nato a Trieste nel 1913, Pahor è considerato il più importante scrittore sloveno con cittadinanza italiana e una delle voci più significative della tragedia della deportazione nei lager nazisti, raccontata in Necropoli, ma anche delle discriminazioni contro la minoranza slovena a Trieste durante il regime fascista, L'intellettuale, testimone in prima persona delle tragedie del Novecento, ha scritto una trentina di libri tradotti in decine di lingue, tra cui «Qui è proibito parlare», «Il rogo nel porto», «La villa sul lago»,« La città nel golfo».
"Con Boris Pahor perdiamo un grande scrittore, un gigante del Novecento che ha saputo raccontare, con maestria, lucidità e senza sconti, l'orrore del lager e della deportazione e condannare ogni forma di totalitarismo. Mi stringo al dolore dei familiari e dei tanti amici che oggi perdono un punto di riferimento".
È l'omaggio del ministro della Cultura, Dario Franceschini, al grande intellettuale.
Si è spenta l'anima e il testimone di un secolo, il Novecento, in tutte le sue accezioni più terribili, osservato e sviscerato dalla sua Trieste, dov'era nato nel 1913. Boris Pahor, grande scrittore e intellettuale sloveno di cittadinanza italiana, era nato da una famiglia di "sciavi" (slavi), di origine carsolina, "duri, senza lingua, né sentimento nazionale", raccontava egli stesso in «Figlio di nessuno», l'autobiografia pubblicata da Rizzoli. Autobiografia a cui Pahor aveva affidato le memorie di una vita lunghissima e soprattutto i ricordi di quando, solo ragazzino, fu derubato della sua cultura dall'avvento del regime fascista, intento a 'italianizzare' la Trieste multietnica e multiculturale costruita ai tempi dell'Impero austro-ungarico.
Lui, "cimice" come tutti gli slavi d'Italia, così li definivano in maniera dispregiativa i fascisti, fu testimone a soli sette anni del rogo del Narodni Dom per mano degli squadristi, delle discriminazioni etniche, ma anche della Resistenza e del dramma dei lager e poi del faticoso ritorno alla vita dopo la guerra. Fu anche un sopravvissuto della spagnola, alla guerra in Libia, al sanatorio. Ma furono i lager l'esperienza-chiave, per Pahor. "Entrare nei campi di concentramento tedeschi - passò per Natzweiler, Markirch, Dachau, Nordhausen, Harzungen, Bergen-Belsen - era una condanna a morte, loro non lo dicevano però la verità è che si moriva, e prima di tutto per fame", aveva rievocato l'anno scorso.
Pahor, più volte candidato al Nobel, era rimasto sempre lucido, malgrado l'età, come lo fu nei decenni passati, quando si espresse senza mezzi termini sia contro la Jugoslavia che perseguitava gli slavi cattolici sia contro l'Italia, incapace di fare luce e giustizia sui crimini fascisti in Slovenia e ovviamente contro nazismo, fascismo e comunismo. "Dedico le onorificenze a tutti i morti che ho conosciuto nel campo di concentramento e alle vittime del nazifascismo e della dittatura comunista", aveva detto due anni fa, sempre nella sua Trieste, ricevendo i titoli di Cavaliere di Gran Croce dell'Ordine al merito della Repubblica italiana e quello sloveno dell'Ordine per meriti eccezionali dalle mani dei presidenti della Repubblica Mattarella e Borut Pahor.