La lenta agonia dei ghiacciai trentini Si teme un calo di spessore di 2 metri
I ghiacciai del Trentino non sono ancora malati terminali, ma certo si possono definire in agonia. L'esempio più noto è forse quello della Fradusta sulle Pale di San Martino, dove la lingua di ghiaccio si è ridotta ai minimi termini e in seguito al suo scioglimento è nato un lago color smeraldo. C'è il poi il Careser (gruppo Ortles-Cevedale), indicato dagli esperti come il ghiacciaio in maggior sofferenza.
Ma basta guardare anche al Mandrone, in alta Val Genova sul gruppo dell'Adamello, per scoprire che nelle giornate più calde d'agosto dallo scioglimento del ghiaccio si formano delle cascate con una portata di 25 metri cubi d'acqua al secondo. «Basterebbero per riempire una piscina olimpionica nel giro di un minuto e mezzo» calcola il direttore di MeteoTrentino Alberto Trenti.
Le ultime stime di «mezza estate» sui giacciai effettuate dall'istituto provinciale risalgono all'inizio dello scorso mese ed apparivano nella media, ma secondo il vicedirettore dell'ufficio idrologico della Provincia di Bolzano Roberto Dinale e il climatologo Luca Mercalli il 2018 apparirebbe come il peggiore degli ultimi anni, con una perdita complessiva dello spessore che potrebbe arrivare a due metri entro fine settembre. «Tra una ventina di giorni effettueremo nuove misurazioni: solo allora potremo renderci conto della gravità della situazione. Certo nelle zone più basse i ghiacciai possono perdere in alcuni casi addirittura 6 metri, e nelle settimane più torride lo spessore diminuisce anche di 30-40 centimetri» spiega Trenti. In un anno normale le perdite sono generalmente di circa un metro e mezzo e solo raramente il bilancio di massa risulta positivo. Una di queste eccezioni si era avuta nel 2014.
Gli effetti più pesanti di sempre dell'innalzamento delle temperature furono registrati nel 2003, ma i ghiacciai si erano abbassati in maniera molto consistente anche nel 2007 e nel 2017. Qualora le previsioni degli esperti venissero confermate, i ghiacciai trentini nel 2018 subirebbero dunque una seconda «mazzata» nel giro di appena 12 mesi.
Le foto mostrano come le lingue di ghiaccio sulle vette si siano ritirate del 60-70% circa a partire dall'ultimo massimo, raggiunto nella seconda metà del 1800, durante la piccola età glaciale. All'epoca i 146 ghiacciai trentini si estendevano su una superficie totale di 110 chilometri quadrati, scesi a 60 negli anni Cinquanta e 40 negli anni Novanta, fino agli attuali 32 chilometri quadrati.
Il direttore di MeteoTrentino osserva come il Careser sia il ghiacciaio in maggior sofferenza a causa della sua conformazione: pendenze non particolarmente elevate ed orientato a sud-ovest. «Arriva a perdere il doppio di molti altri ghiacciai» spiega Trenti. Gli effetti del mese di agosto, indicato come anomalo per la scarsità di precipitazioni e il calore intenso, potrebbero essere molto rilevanti.
«Il principale effetto negativo legato al ritiro dei ghiacciai è certamente sul piano paesaggistico, ed influenza anche l'approccio degli escursioni verso la montagna. In alta quota erano stati creati dei sentieri che oggi non sono più fruibili, anche perché in alcuni casi interrotti da pareti di roccia riemerse: un caso eclatante è quello del percorso verso il rifugio della Lobbia. Sul Careser invece è stato spostato il tracciato per raggiungere il passo di Saent» sono le parole del numero uno di MeteoTrentino.
C'è poi il fenomeno dei crolli di roccia, come nel caso della Vedretta degli Sfulmini sul Brenta (vedi l'Adige di ieri). «Quest'anno non si sono comunque rilevati distacchi rilevanti. Solo i crolli che avvengono a quote superiori ai 2000 metri sono legati direttamente allo scioglimento del permafrost: gli strati di acqua ghiacciata nella roccia, non visibili dall'esterno, che hanno l'effetto del cemento. È l'innalzamento delle temperature a provocarne lo scioglimento» conclude il direttore Trenti.